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La serata di Silvia era filata a gonfie vele. Terminata la cena, assieme a Carlo si era recata sul lungomare poco distante dal ristorante per una bella passeggiata al chiaro di luna. La notte indossava un abito del suo stesso colore, ornato da miriadi di diamanti luccicanti quali erano le stelle; un abito elegante e suadente, ambito a essere indossato da ogni signora e signorina e che suscitava invidie verdi e ammaliava coloro che vi posavano lo sguardo, offrendo generosamente ambrosia ai loro occhi. Questo è uno degli aspetti più belli delle cittadine del sud: marina e centri storici solitamente sono collegati e facilmente raggiungibili in poco tempo e il panorama incanta ogni volta come se fosse la prima.

Sognò gli avvenimenti antecedenti all’abbraccio di Bacco e al bacio di Morfeo: una lunga passeggiata trascorsa a ridere e punzecchiarsi a vicenda, ammiccando e alludendo a dolci prosegui, tutto confuso, disordinato, un miscuglio d’elementi che solitamente causano l’emicrania che in quei momenti si amalgamavano alla meglio e con risultati eccellenti. La luce soffusa color arancio dei lampioni era resa più debole dal candido e scintillante riverbero lunare, che illuminava il marciapiede senza far sentire la mancanza delle ore diurne.

Si erano fermati per un gelato in un chiosco collocato nell’unico parco sul lungomare che fungeva anche da parco giochi per i bambini, un bel posticino, intimo anche quando vi era presente molta gente. Presero due coni gelato preconfezionati, fermandosi ad ammirare il torneo di beach volley che si teneva quella sera stessa. Risero come matti quando, dopo una battuta non andata a buon fine da uno dei giocatori, la palla finì sul gelato di Carlo, facendolo rovinare a terra e facendoglielo rimanere sulla gola con tutta l’insoddisfazione di questo mondo.

Ci fu un lungo e appassionato bacio e poi… Il buio.

Silvia si destò dal suo torpore, la testa un enorme generatore di corrente in sovraccarico sul punto di esplodere ma come magra consolazione non avvertì alcun conato di vomito. Schiuse lentamente gli occhi, ben pronta a fronteggiare la luce che le avrebbe dovuto assalire le pupille restringendole, ma questa non giunse; non riusciva a vedere oltre il suo naso.

- Carlo…? – chiamò disorientata, per poi accorgersi di essere terribilmente a disagio. Si sentiva costretta ai polsi e alle caviglie da fibbie di freddo cuoio, meno fredde però della superficie contro la quale era poggiata. Si sentiva leggera, spoglia a tratti.

Che diamine abbiamo combinato ieri sera? – Carlo, - chiamò di nuovo, la voce leggermente inquieta – dove sei? Se stai dormendo, svegliati! Devo andare a lavoro! Carlo? - Non ottenne risposta. L’odore di disinfettante che aleggiava nell’aria risvegliò i suoi sensi, l’orripilò, si chiese dov’era e che cosa stesse succedendo. Iniziò a dimenarsi energicamente, invocando a voce stridula il nome del suo spasimante del quale pareva non esserci alcuna traccia. Quei pochi millimetri di spazio che le fibbie concedevano alle sue giunture costrette, facevano battere mani e piedi contro un metallo leggero che sembrava alluminio dal suo rumore.

- Carloooo, Caaarloooo, Caaa-aa-aaarlooo… Ti prego, ho paura; mi sento confusa e disorientata, non lasciarmi qui così a lungo – piagnucolò Silvia implorando a vuoto, la voce rotta dalla paura diventava rauca.

Udì il rumore di una porta scorrevole non molto lontana ma celata, dalla quale provenne uno spiraglio di luce che illuminò per breve tempo la stanza. Fu un intervallo breve, che non permise alla donna di riconoscere l’ambiente circostante né di scorgere alcuna sagoma animata o meno. A quel rumore Silvia trasalì, un urlo che con violenza risaliva lungo la gola si bloccò al suo interno, andando a crearvi una bolla d’aria che fu deglutita e, giunta alla bocca dello stomaco, le causò un dolore atroce che si trasformò in acidità acuta.

- Chi è? Chi c’è? Carlo, sei tu? – domandò in tono incerto e speranzoso ma tremolante allo stesso tempo.

- Sì Silvia, sono io. Sono subito da te, concedimi giusto un attimo, vuoi? – rispose egli con voce melodiosa.

Lei tacque e la luce all’improvviso si accese. Si trovava in una camera che rievocava in tutto una sala operatoria. Silvia era assicurata a una barella verticale mediante quattro cinghie di cuoio, vestita soltanto di una mantella verde acqua destinata all’uso da parte dei pazienti. Presto davanti a lei fece la sua comparsa Carlo, indosso il camice sterile, mascherina, guanti e cuffietta. Emanava un insistente odore di disinfettante. Nella mano reggeva una siringa contenente uno strano e affatto rassicurante liquido verde, con l’ago argenteo e gocciolante rivolto verso l’alto.

- Carlo! Per fortuna sei qui, liberami! – supplicò lei con voce tremante. – Ma certo che ti libererò, Silvia, ma non prima che tu abbia assolto il tuo compito. – Silvia si accigliò. – Compito?! Ma di che parli, liberami! –

- Vedi, nei giorni nostri esistono tante persone che soffrono, mi segui? – spiegò Carlo con un filo di tenebrosa voce, quasi non volesse farsi udire da orecchie indiscrete.

- Che… che intendi? – fece lei con fare ansioso.

- Intendo che stai per diventare un’eroina, – confessò Carlo, che le iniettò l’ago della siringa nel collo somministrandole così il farmaco – andrai incontro a un piccolo sacrificio affinché la vita di una persona bisognosa possa migliorare. Un gesto eroico, non trovi? –

Silvia lo fissava, assente. Si sentiva la testa leggera, troppo leggera e le palpebre pesanti. Era abbastanza cosciente, tuttavia, da ascoltare ancora per qualche tempo ancora il suo rapitore che le disse: - Lei ha… aveva i tuoi stessi occhi. Davvero, dico, identici ai tuoi… -

La donna cercò invano di dimenarsi per sfuggirgli, ottenendo come risultato i marchi delle fibbie di cuoio sulla sua pelle, che iniziava a pizzicare per il rossore.

- È inutile provare a opporre resistenza – la rincuorò accarezzandole la fronte, - non puoi evitare la tua generosa donazione. Lei ti ringrazia e, stanne certa, ti ringrazio infinitamente anche io. –

Silvia così si addormentò, così il chirurgo poté operare in tranquillità asportandole gli occhi, che in seguito ripose in un apposito contenitore volto alla perfetta conservazione. Dopo averla medicata a dovere e bendata, fu abbandonata con discrezione sulla scalinata del pronto soccorso della cittadina, ancora sotto l’effetto dell’anestesia.

Quattro.

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