3 - Coinquilino

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Entrai in casa sbattendo la porta. C'era troppo silenzio, la televisione era spenta e nessuna voce giungeva alle mie orecchie. Avanzai lungo il corridoio e notai la porta chiusa della stanza di Rory.

Bussai lievemente e un "avanti" squillante mi diede il permesso per aprirla.

Rory era sdraiato sul letto a pancia in giù, il computer portatile davanti a lui, e stava scorrendo il dito sul touchpad. Mi appoggiai con la schiena alla parete rosa pallido. Ormai ero abituato alla stravaganza di quella stanza: a cominciare dalle mensole piene di manga e videogiochi, alle diverse tonalità di rosa che spiccavano qua e là grazie a varie suppellettili e soprammobili, al tappeto soffice rosa shocking, ai gadget di anime, telefilm, serie che occupavano il resto dei mobili.

Era semplicemente la camera di Rory, quello che era diventato il mio migliore amico da quando mi ero trasferito l'estate precedente, quello che mi aveva fatto trovare l'appartamento che tanto cercavo disperato, contattandomi su Facebook sotto a un mio annuncio.

«Devi sempre farti riconoscere, tu» dissi e lo guardai storto e accigliato.

«Andiamo! Volevo solo fare amicizia.» Si mise seduto, infilando i piedi nelle pantofole bianche a forma di coniglio.

«So io che amicizia volevi fare.»

«Che male c'è? Hai per caso l'esclusiva?»

Sentii le guance imporporarsi. Non ce l'avevo affatto, anche se, probabilmente, era quello che volevo. Ero davvero incorreggibile, troppo perso nei miei sogni da non comprendere la linea che separava la realtà dalla fantasia.

Non sono niente per Trey, sospirai e andai a sedermi di fianco a Rory. «Non ho nessuna esclusiva, ma potresti evitare di far scappare i miei amici ancor prima che lo diventino?»

«Scusa, scusa. Hai ragione» ammise. Mi diede una pacca sulla coscia, restando poi con la mano su di essa.

«Come sempre.»

«Hai mangiato le caramelle?» chiese. Mi guardò con cipiglio e annusò l'aria intorno a noi. «Sai che ti viene mal di stomaco.»

«Non devi farmi da mamma.»

«Infatti non voglio essere tua mamma.» Mi fissò beffardo. «Voglio essere la mamma dei nostri figli.» Strinse ancora di più la coscia, senza far svanire il sorriso dal suo volto.

Roteai gli occhi al cielo, per poi tornare in quelli quasi grigi del mio amico.

Era sempre così, immaginai che non sarebbe mai svanita la cotta che diceva di provare per me da almeno ottobre. Era persino inutile contare quante volte ci aveva provato e quante volte l'avevo rifiutato. Non perché non mi piaceva, ma perché non provavo per lui dei sentimenti che me lo facevano vedere come più che amico. Nonostante ciò, lui non evitava di fare battutine e di ribadire il concetto, un concetto che io avevo afferrato già da tempo. Finché si trattava di uno scherzo, a me andava bene. Non avrei mai voluto ferirlo realmente.

«Ma smettila» lo canzonai, gettandomi contro il suo petto per farlo barcollare. Subito dopo ci perdemmo nel raccontare della giornata reciproca, come ogni giorno, ci piaceva condividere tutto ciò che facevamo, anche i dettagli più insulsi.

«Ti piace quel Trey?»

Non mi aspettai la domanda così improvvisa, soprattutto con quel sorriso sempre più lascivo che mi faceva venire voglia di picchiarlo.

«Non è che mi piace... Non ci conosciamo nemmeno!»

«Non conoscevi neppure quel barista, eppure mi hai chiesto di andare da lui e provare a farmi dare il suo numero.»

Come Guardare il SoleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora