Capitolo 22

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Chuck

Ero seduto nel salotto del nostro appartamento e, per ammazzare il tempo, stavo leggendo le notizie dell'ultima ora sul giornale online.
Stavo sfogliando le notizie di cronaca, quando il cellulare al mio fianco iniziò a vibrare.

Staccai gli occhi dallo schermo del tablet, le poi portarli a quelli del mio cellulare. Vidi il nome di Mary lampeggiare sul display e, premendo il tasto verde, portai l'apparecchio all'orecchio.
«Pronto?»

«Devi venire subito all'ospedale! Tua madre ha avuto un'incidente e adesso è in sala operatoria...» Disse tutto d'un fiato Mary, cercando di sopprimere i singhiozzi che cercavano di uscire dalle sue labbra.

«C... Cosa...? Sta... Sta bene?» Chiesi, iniziando a sentire freddo lungo tutto il corpo. Tenendo il cellulare tra la spalla e il capo, corsi a mettermi la giacca e le scarpe.
In quel momento stavo indossando un jeans e una camicia bianca, visto che ero da poco tornato dal lavoro.

Afferrai al volo il mio portafoglio e le chiavi dell'auto e, in seguito, corsi giù per le scale, sperando di non rompermi il collo.
«Non mi hanno ancora detto nulla i dottori... E poi... Ho provato a chiamare tuo padre, ma risponde la segreteria... E... E...»

Appena arrivai alla mia macchina, misi in moto il motore e, premendo sull'acceleratore, mi indirizzai verso la casa dei miei genitori.
«Mary calmati... Vado a prendere mio padre e veniamo lì da voi... Appena hai notizie, di qualunque genere, chiamami... Okay?»

In seguito riattaccai.
L'ansia aveva iniziato a bloccarmi il respiro, e dovetti tratte profondi sospiri per cercare di calmarmi. Per fortuna non abitavamo molto lontano da loro e, in una decina di minuti, arrivai al loro vialetto.

Appena arrivai alla porta d'ingresso, bussai freneticamente, ma nessuno rispose.
Suonai il campanello, ma nulla.

Presi la chiave che loro due erano soliti nascondere nel vaso e, dopo averle infilate nella serratura, entrai di corsa.
«Papà? Papà dove sei? Papà!»

Urlai nel grande salone, girandomi attorno per cercare un segno di vita. Ma nulla, le luci erano tutte spente e nessun rumore se non la mia voce risuonava nella casa.
Corsi verso la cucina, la cantina e il giardino interno, ma sembrava come scomparso. Andai al primo piano, ma lo studio, i due bagni e la camera matrimoniale erano deserte.

Mancava solo una camera: il solaio, nonché la camera di Dylan. Aprii la porta che conduceva a una stretta scala a chiocciola e, salendo due scalini alla volta, entrai nella camera di mio fratello.

Lo trovai lì.
Seduto sul letto ancora fatto di Dylan, teneva tra le mani una foto del ragazzo, con indosso la divisa di Lacrosse e in mano la stecca, e sorridente verso l'obiettivo della fotocamera. Quel giorno aveva preso una brutta botta alla testa e aveva spaventato tutta la sua famiglia, per poi rialzarsi con un sorriso a trentadue denti.

Sospirai nel vederlo così e, a passi lenti, mi avvicinai a lui, inginocchiandomi poi davanti a lui.
I capelli una volta neri, avevano acquistato delle sfumature sul grigio, a causa dell'angoscia degli ultimi tempi.
«Papà... Mamma è in ospedale, dobbiamo andare ora...» Dissi con calma, posando le mani sulle sue spalle e scuotendolo leggermente.

Eppure lui sembrava in uno stato di trance.
«Chuckie... Sono un genitore così terribile?» Chiese lui, convince roca e distrutta.
Mai mi sarei immaginato di vederlo in quello stato. L'uomo forte che mi insegnò a nuotare, a giocare a baseball e ad essere un vero uomo, in quel momento era un guscio vuoto.

«No papà... Sei stato un ottimo genitore, ma ora dob...»
«Allora perché Dylan ci ha abbandonati? È così brutto voler un futuro stabile per il proprio figlio...?» Disse, scostando lo sguardo dalla foto e guardandomi negli occhi. Sgranai leggermente lo sguardo nel vederli lucidi ma, soprattutto, talmente profondi da sembrare due buchi neri.

Boccheggiai, in cerca delle parole giuste, ma quello non era il momento adatto per parlarne.
«Ne parleremo dopo. Ora dobbiamo andare papà, mamma è in ospedale!»

* * *

Quando arrivammo all'ospedale, corremmo verso la sala operatoria e, nella sala d'aspetto, trovammo Mary.

Era seduta su una sedia in plastica, mentre tra le mani teneva un dépliant che non persi tempo a leggere.

Mi diressi velocemente verso di lei e, appena mi notò, ci stringemmo in un forte abbraccio, mentre lei lasciava dietro di sé il cartoncino colorato.

«Finalmente siete qui...» Disse lei, stringendomi a sé per poi andare verso il suocero. Anche loro si strinsero in un forte abbraccio.

«Ti hanno detto qualcosa?» Chiesi, guardandola con sguardo pieno di angoscia e timore.
Mai come in quel momento avevo avuto paura.

«Nulla... È dentro da ormai due ore, e non sono ancora usciti...» Disse lei, prendendo posto sulla sedia di poco prima e accavallando le gambe.
Mio padre prese il posto più vicino all'ingresso della sala e, appoggiandosi alle ginocchia, nascose il viso con le sue mani.
«Prima Dylan e poi questo...» Disse più a se stesso che a noi due.

Mary mi guardò con sguardo interrogativo e, facendole segno che avremmo rimandato, presi la sua mano sinistra nella mia.
Dopo mezz'ora, una giovane donna con richiamò e, mentre si toglieva la mascherina bianca, notai un'espressione affranta sul suo volto.

Il mio cuore cessò di battere e i miei polmoni di funzionare.
«La signora ha avuto un forte trauma cranico e il femore fratturato. Abbiamo fatto il possibile per aiutarla ma...-

Il battito del mio cuore era talmente assordante che per poco non riuscivo a sentire le parole seguenti. Stringevo la mano di Mary, così forte che le d'un attimo temetti di fermarle la circolazione.
Mio padre, invece, la guardava con gli occhi lucidi e il respiro accelerato.

-È in coma e non possiamo prevedere il suo risveglio. La terremo in una stanza privata il più possibile, ma non possiamo promettervi per sempre, spero capiate...» Disse lei, sorridendoci in modo dispiaciuto, prima di congedarsi con un augurio di buona fortuna e una stretta di mano.

Mio padre, tutto d'un tratto, cadde in ginocchio e, come se nulla fosse, svenne a terra.
Mary iniziò a urlare, chiamando aiuto mentre io, come ipnotizzato, rimasi a fissare la scena.

Stava accadendo tutto di fila, senza pausa, come una fila di tasselli del Domino. Cadevano uno ad uno senza mai una fine apparente e, in tutto ciò, dovevo ancora avvertire Dylan.

Different /Newtmas' AU/Where stories live. Discover now