Contrasti

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Le voci dei soldati si erano allontanate sempre di più, fino a diventare indistinguibili dalla cella, accompagnati dal rumore dei passi. Li invidiava: avrebbero festeggiato ora che il loro compito di portare in quella cella il sovrano di Mu era stato svolto. Avrebbero avuto il vino, avrebbero sentito il nettare d'uva scivolare in gola e riscaldare il corpo.

Lui no. Avrebbe dovuto passare un'altra notte - quante ne erano trascorse da quando Atlantide si era ribellata al suo governo? - in cella e per la prima volta non sarebbe stato da solo al suo interno. Avrebbe dovuto condividere quel poco spazio in cui si era adattato a vivere con qualcuno che sia odiava sia era consapevole che non avrebbe potuto staccarsi.  

Mai prima di allora avevano avuto un aspetto così diverso - Hesperos ne era sicuro: per un attimo, alla luce della torcia dei soldati aveva visto l'aspetto di Esi. Barba rasata, un piccolo taglio sulla guancia - forse un errore di rasatura, forse una ferita di battaglia; capelli sporchi, incrostati da sudore, sangue e fango. Lui, invece, era da giorni che desiderava un rasoio, togliersi la peluria dal volto. La nuca gli pizzicava, rendendo difficile dormire. Ma le ricchezze e i bagni erano solo un ricordo sbiadito, nascosti anch'essi dalla polvere.

«Avevo pregato per la tua morte... ma a quanto pare gli Dèi non sono così benevoli». Hesperos inclinò la testa, fissando il gemello che, senza degnarlo di uno sguardo, si era seduto in un angolo, lasciando distesa la gamba ferita.

«Non ascolteranno mai un... bastardo traditore come te».

«Io sarei il traditore?»

Il buio della cella impediva a Hesperos di vedere l'espressione del fratello, ma il tono di voce che aveva usato non lasciava dubbi: apparentemente calmo, nascondeva una rabbia che avrebbe covato per giorni prima di esplodere.

«Hai abbandonato la nostra... idea» rispose Esi prima di sputare a terra. «Avrei dovuto prendere io il trono di Atlantide. Non sei capace di governare, non ne sei mai stato in grado. Perfino Alannis era più in grado di te. Adesso che siamo entrambi in cella e il mio esercito è prigioniero, dimmi: chi porterà a compimento il nostro piano? Hai lasciato la vittoria a loro, a questo popolo di filosofi e navigatori! Ti sei dimostrato uguale a nostro padre chinando il capo di fronte ad Atlantide».

«Loro si sono rivoltati contro di me e hanno sconfitto te in battaglia». Hesperos si sedette nell'angolo opposto a quello di Esi, quanto più lontano glielo permetteva la catena. «Io ero il tiranno, tu l'invasore. È un popolo guerriero nell'anima, ho capito che abbiamo sbagliato entrambi a... sottovalutarlo».

«Ti avevo detto di uccidere Alannis».

Hesperos sbuffò, poi scoppiò a ridere. «Credi che se l'avessi uccisa le cose sarebbero andate in modo diverso? Credi che... che avrebbero accettato la sua morte? Avrebbero conquistato Mu, avrebbero distrutto la nostra forza. E probabilmente non saremmo qui a far rimbalzare tra noi la colpa. Ottimo lavoro, generale».

Esi abbassò le palpebre, serrando le labbra; se il dolore alla ferita non fosse stato troppo da sopportare, avrebbe estratto il pugnale che aveva nascosto sotto la tunica prima della battaglia – doveva ringraziare gli Dèi per quella dimenticanza dei soldati di Alexandros che, forse troppo presi della vittoria, avevano creduto che la spada fosse stata l'unica arma che aveva addosso.

Rimase in silenzio, senza rispondere alla provocazione di Hesperos: dargli peso sarebbe stato inutile. Non si meritava tutta la considerazione che gli aveva regalato da quando era entrato lì dentro.

La sconfitta continuava a bruciargli sulla pelle e a dolergli più della ferita: l'idea di essere stato battuto con l'inganno da Alannis non gli dava tregua e più tempo passava da quando era stato chiuso lì dentro, più la sete di vendetta verso la figlia di Ktesias cresceva.

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