L'aria umida della sera si insinuava sotto le vesti attraverso una leggera brezza. Aphia rabbrividì, stringendosi nelle braccia. La stoffa non era abbastanza pesante per proteggerla dal freddo.

Come ogni sera, da ormai troppi giorni scrutava l'orizzonte, sperando di essere la prima a vedere le navi di ritorno da Atlantide. Sapeva di non essere la sola: in tutto il regno madri, mogli, figlie e sorelle aspettavano il ritorno dell'esercito. Nessuno sembrava avere notizie certe dall'isola: sapeva che il viaggio era lungo, che pochi mercanti erano disposti a dire la verità o solo ad avventurarsi ad attraccare sulle coste di Mu.

Poteva essere successo di tutto ad Atlantide: un assedio ancora in corso portato avanti dalla resistenza degli isolani, trattative tirate per le lunghe per accordi che non andavano bene a nessuna delle due parti. O il peggio.

Rabbrividì, stringendosi ancora di più nelle braccia. No, si disse. Atlantide non può vincere.

Portò una mano sulla spalla, stringendo tra le dita la spilla che fermava la veste bianca; le estremità appuntite delle corna del cervo d'oro premettero sui polpastrelli. Era stato uno degli ultimi regali di Esi, insieme alla promessa di regnare insieme prima su Atlantide e poi sul mondo conosciuto.

E invece, tutto ciò che riusciva a vedere era la distesa del mare che pian piano andava tingendosi del rosso del sole al tramonto.

Strinse le mani sulla balaustra e i bracciali tintinnarono appena, rompendo il silenzio in cui si era immersa.

Abbassò lo sguardo quando si sentì afferrare la tunica. Gli occhi vivaci di Hector incrociarono i suoi: sorrideva, ma Aphia sapeva che c'era solo una domanda che ogni giorno e ogni notte le rivolgeva.

«Quando torna?»

Lo sollevò da terra, ritrovandosi subito le mani del figlio intorno al collo. Diede le spalle al muro, notando la balia con una mano appoggiata alla colonna.

«Chiedo perdono, mia regina» mormorò tra un respiro affannato e l'altro. «Le mie gambe non sono più quelle di una volta, non riesco a stargli dietro».

Aphia sorrise, avvicinandosi alla donna e mettendole una mano sulla spalla. «Va' pure a riposarti, Clio».

Si rivolse poi al figlio, facendogli un buffetti sulla guancia. «Avevamo detto di non scappare più dalla balia».

Hector annuì appena con la testa, continuando a sorridere. Non le avrebbe mai dato ascolto, di quello era certa.

Lo mise a terra prese per mano, camminando attraverso i corridoi scuri del palazzo, accompagnata solo dall'alone luminoso e caldo della fiamma della torcia. Le ombre dei soldati di ronda che ogni tanto entravano nel suo campo visivo le ricordavano tutte le sere in cui aveva intravisto Alannis sgattaiolare lontano da Hesperos. Non aveva mai avuto troppa confidenza con lei e forse era stato meglio così – difficilmente avrebbe mal sopportato le sue ideologie, troppo impregnate dall'esser cresciuta ad Atlantide.

Rimase con la mano sulla guancia del bambino anche dopo che era certa che si era addormentato: aveva visto i suoi occhi chiudersi pian piano mentre cantava la stessa ninnanna che l'aveva cullata nelle sere aride dell'entroterra del regno; il respiro era diventato regolare, facendo alzare e abbassare il petto a ritmo costante. Si chinò su Hector, dandogli un bacio sulla fronte, poi si alzò dallo sgabello di legno intarsiato, afferrò la torcia riposta nell'anello di metallo alla parete e uscì dalla stanza, lasciandola nel buio.

Percorse in silenzio la strada che la separava dalla propria camera, muovendo appena le labbra, seguendo le parole della canzone che aveva cantato al figlio. Era il suo modo di tenersi compagnia, quando Esi era lontano ed Hector dormiva.

Sea of fateWhere stories live. Discover now