Capitolo 38

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Mi trovavo in una stanzetta piccola e buia. Dopo aver avuto l'attacco di panico ero riuscita a calmarmi con non poco sforzo. A quel punto avevano deciso che non fosse più divertente per loro torturarmi e mi avevano rinchiusa li.

Mi avevano lasciato delle garze e nella mia piccola cella c'era un lavandino sporco e incrostato dal quale avevo preso dell'acqua di modo da lavare i tagli sull'addome. Vicino a questo c'era un piccolo water che avevo già avuto modo di utilizzare qualche volta.

Facevo lenti respiri seduta a terra nella polvere cercando di capire come uscire da in situazione del genere. Non sapevo neanche bene dove mi trovassi, sapevo che eravamo da qualche parte nella montagna che era stata la meta della nostra gita di ferragosto.

Ne era passato poco di tempo da quei giorni ma erano successe così tante cose da allora che mi avevano stravolto la vita. Non riuscivo a credere di essere in quella situazione.

Mi alzai frustrata, non sapevo da quanto tempo fossi lì, non sapevo se fosse giorno o notte. Mi avevano portato della focaccia da mangiare più volte. Ma secondo la mia capacità di orientarmi nel tempo potevano essere passate due ore come qualche giorno, anche se propendevo per la seconda opzione. Mi avvicinai alla porta metallica arrugginita e mi affacciai dalla piccola feritoia.

Il corridoio era mal illuminato da una luce traballante. L'odore di muffa era molto forte, segno del fatto che fossimo sottoterra. Le pareti erano fredde e umide. Fortunatamente avevo con me il giacchetto di Edoardo.

Fu così che mi venne in mente per la prima volta di controllare le sue tasche. Misi le mani su quelle laterali e le trovai desolatamente vuote.

Trovai un fazzoletto nella tasca interna. Non sapevo che farmene se non asciugarmi le lacrime di disperazione che mi stavano uscendo.

Mi sdraiai a terra, i capelli che si riempivano di polvere, ma non mi importava. Volevo solamente uscire di lì ma non sapevo minimamente da dove iniziare.

Ero infastidita da un sasso nel pavimento irregolare della stanza così mi alzai svogliatamente e tastai in terra per toglierlo. Ma non trovai niente. Allora mi risdraiai a terra in un altro posto, sentendo sempre la stessa protuberanza all'altezza della scapola destra.

Mi tolsi circospetta la giacca senza fare alcun rumore, la stesi a terra e la toccai attentamente. Quasi urlai quando trovai un taschino interno segreto del quale non mi ero mai accorta. Aprii la piccola tasca ed estrassi tremante ed incredula un oggetto cilindrico che non riuscii subito a decifrare, data la poca luce presente.

Non appena cominciai a tastarlo capii. Era un coltellino svizzero. Che cosa se ne facesse un ragazzo lupo di un coltellino svizzero in una tasca segreta del giacchetto non ne avevo idea, ma in quel momento non mi importava.

Mi avvicinai con cautela alla porta con il cuore che mi batteva a mille. Il bruciore delle ferite, che fino ad un attimo prima mi aveva tormentato, in quel momento era passato in secondo piano. Una scarica di adrenalina.

Feci passare le mani attraverso le sbarre della feritoia e raggiunsi il lucchetto. Di certo non sarebbe stato facile scassinarlo ma dato che ero sempre stata appassionata di libri gialli a un certo punto mi ero dilettata, con un set di grimaldelli, ad aprire qualche serratura. Solo a scopo istruttivo, ovviamente.

Il lucchetto era piuttosto grosso, il coltellino mi sarebbe stato utile. Lo studiai alla fioca luce del corridoio tirando fuori tutti gli arnesi fino a che non trovai quello che faceva al caso mio, uno lungo stretto e sottile.

Ora mi serviva qualcosa che facesse da leva. Fortunatamente il coltellino aveva un anello per poter essere attaccato come portachiavi. Rientrai nel buio della cella, staccai l'anello e poi facendo molta attenzione lo svolsi, in modo da avere un sottile striscia di metallo.

Avevo fatto tutto il più silenziosamente possibile. Era il momento di mettere in pratica ciò che avevo imparato ma venni assalita dall'ansia. Non sapevo se sarei stata in grado di trovare l'uscita di quella grotta.

Il corridoio dava sulla sala nella quale mi avevano tenuta circa due giorni prima- ipotizzai dai miei bisogni fisiologici, ma data l'assenza di voci immaginai che in quel momento non ci fosse nessuno. Sfortunatamente l'unica via di uscita della quale fossi al corrente era al piano di sopra, dove non avevo idea di quante persone ci fossero.

Rimasi a rimuginare nella relativa sicurezza di quella cella polverosa. Dovevo solo darmi coraggio e uscire di lì, poi sarei stata in grado di affrontare tutto.

Mi sciacquai le mani polverose nel lavandino sporco e poi mi diressi alla porta. Non fu affatto facile raggiungere il lucchetto e ancora meno scassinarlo, riuscendo a vedere poco o niente.

Piano piano però, facendo attenzione a non far cadere i miei attrezzi, riuscii lentamente a far scattare il meccanismo all'interno. Aprii il lucchetto che cadde in terra con un tonfo sordo.

Mi immobilizzai aspettandomi di sentire dei passi nel corridoio, ma non fu così. Aprii con circospezione la porta, attenta a non farla cigolare sui cardini. Recuperai il giacchetto di Edoardo da terra, me lo misi addosso e ringraziai mutamente il mio ragazzo per avere lasciato il coltello nella tasca.

Impugnai il coltellino svizzero, estraendo la parte del coltello vera e propria e mi diressi verso la sala dove mi avevano legata prima. Questa era deserta, appena vidi gli oggetti presenti sul tavolo rabbrividii.

Oltre a vari tipi di coltelli c'erano anche due trapani con varie punte e una scatoletta collegata a dei cavi e delle pinze, non aveva l'aria di essere qualcosa di divertente.

Arraffai un coltello lungo e luccicante e me lo misi nel retro dei pantaloni, tenendo sempre saldamente con me il coltellino svizzero. Mi diressi in punta di piedi verso le scale, respirando a pieni polmoni l'aria umida e maleodorante del piano interrato.

Dopo qualche respiro profondo mi decisi a salire le scale. Avevo il cuore in gola che batteva con frequenza inaudita. Nella mia mente ripassavo ciò che avevo imparato al campo di addestramento, ma il tempo era stato poco, nonostante mi ci fossi impegnata tanto.

Non avevo mai combattuto contro un lupo, solo contro licantropi in forma umana. Non avevo alcuna speranza. Maledissi la mia mente che faceva quei pensieri in quel momento.

Arrivai in cima alle scale che davano su un corridoio illuminato dalla luce flebile del tramonto. Sentivo delle voci provenire dalla mia sinistra. Sapevo che la porta dalla quale ero entrata si trovava proprio in quella direzione così decisi di andare dal lato opposto, sperando in una finestra.

Percorsi a passi felpati il lungo corridoio fino a che non trovai una porta aperta che dava su una camera da letto. Dentro non vidi nessuno, solo un grande letto di legno scuro intonato all'ampio guardaroba.

Andai verso la finestra e guardai fuori. La casa era in mezzo al bosco, alti alberi dal tronco robusto e nodoso svettavano alla ricerca della luce. Il colore rosso del cielo dato dal tramonto dava al paesaggio una nota fiabesca. Era davvero un bellissimo luogo.

Aprii silenziosamente la finestra, nella speranza che non cigolasse. Misi con cautela un piede fuori, poggiandolo sulla balaustra e mi issai al di fuori.
In quello stesso momento sentii dei passi conciarti nel corridoio.

-Non è più in cella, avverti Alberto!- sentii dire da una voce femminile che riconobbi essere della ragazza che mi aveva rapita.

Il mio cuore cominciò a pompare a mille mentre saltavo atterrando silenziosamente sull'erba folta e fresca. Mi diressi correndo vicino alla legnaia in prossimità del bosco e mi acquattai in mezzo all'erba alta.

Lupo di mareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora