Capitolo 3

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Blake

Sparai.

Dritto nel centro.

Tutte le volte che stringevo l'impugnatura della carabina calibro 22 tra le dita e puntavo al bersaglio, con il fondello del calcio spinto contro la spalla, immaginavo la faccia di mio padre stampata al posto del punto centrale. E, puntualmente, avevo una mira pazzesca: totalizzai nove punti solo al primo tiro.

Fuori si scagliava la bufera. All'esterno delle spesse mura del poligono, udivo i tuoni e dalle finestre alle mie spalle penetrava la luce effimera dei fulmini. La pioggia scrosciava ininterrotta, a indicare che quello sarebbe stato un banale acquazzone estivo di almeno mezz'ora.

Separai l'arma dal mio corpo e rilassai gli occhi; la appoggiai sulla superficie di fronte a me e la abbandonai lì, voltandole le spalle e dirigendomi verso l'ufficio.

Avevo sparato solo tre colpi, quella mattina. Tutti dritti nel centro.

Quando raggiunsi il piccolo ufficio adiacente alla zona di tiro, mi sedetti alla scrivania e sistemai i documenti sparpagliati su di essa. Fuori, la pioggia non accennava a cessare. Malgrado il temporale, quella era una mattinata come tutte le altre da quando avevo ventun anni: il Mitchell Shooting Range, poligono di tiro di famiglia, non passò nelle mie mani appena diventai maggiorenne. Mi ritrovai obbligato ad aspettare che alcuni problemi si risolvessero, per gestirlo nel migliore dei modi. Da quel momento in poi dovetti portare avanti la tradizione, anche se gli affari andavano sempre peggio. Nessuno frequentava più quel luogo, vista la storia che portava con sé, e non potei biasimare gli abitanti di Worcester per quella decisione.

Se non fossi stato così legato a quel luogo, lo avrei fatto anch'io.

Appena quel pensiero si faceva vivo, però, lo scacciavo e portavo avanti l'attività contraddistinta dal mio cognome. E come quel giorno, per sfogarmi e distrarmi, approfittavo delle armi che possedevo. Spesso e volentieri utilizzavo la carabina con cui crebbi, la stessa sul cui calcio mio padre fece incidere il mio nome, tempo addietro, una volta diventato troppo grande per il fucile per bambini con cui mi aveva insegnato le basi.

Impilai i documenti dividendoli per categorie e li sistemai nei cassetti secondo un criterio preciso: bollette in uno scomparto, volantini pubblicitari dall'altro. Fu la porta davanti a me a distrarmi, che si spalancò generando la speranza che fosse qualcuno venuto per sparare un paio di colpi. Ahimè, comparve solo mia sorella Ava.

Le sorrisi quando varcò la soglia. Entrò, bagnata da capo a piedi come un pulcino fradicio. Risi sotto i baffi a quel pensiero. Lei sbuffò, lanciò le chiavi del nostro pick-up sulla scrivania e si lasciò cadere su una delle sedie poste di fronte a me. Le punte dei suoi capelli gocciolavano con insistenza, finendo sul pavimento di legno ai nostri piedi.

«Ho camminato per due metri sotto quell'acquazzone», indicò la porta alle sue spalle, «e penso che basti» dichiarò.

«Pioggia a parte, stai bene?» le domandai guardandola.

Ciò che era accaduto la sera prima continuava a tormentarmi. Se non fossi arrivato in tempo, quanto oltre si sarebbe spinto quel ragazzo? Mi venivano i brividi se ripensavo alle sue mani che insistevano sul corpo minuto ed esile di mia sorella, lo stesso che le aveva impedito di difendersi come avrebbe dovuto.

Ringraziai non-so-chi per avermi concesso di arrivare puntuale.

«Me lo chiedi da quando ti sei svegliato, Blake» mi canzonò. «Sto bene. È successo, ma stai tranquillo, non è stato niente di irreversibile» mi rassicurò. «Piuttosto» riprese, «come vanno le cose, qui?»

«Non si è ancora presentato nessuno, nemmeno le persone che di solito si allenano... non penso che potremo andare avanti a lungo, di questo passo». Ci risi su.

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