Capitolo 31

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Rylee

Seduta sulla panca dinanzi alla pista silenziosa dello Skylite, allacciai i pattini formando un fiocco stretto.

Il mio umore non era dei migliori, dopo quello che era successo la sera precedente, e sottopelle sentivo ancora parte dei dolori inferti dalle percosse di Nora. Brutti ematomi mi avevano tinto parte della pelle di sfumature violacee, ma mi ero ingegnata per coprire il possibile e non destare sospetti. Di lì a poco, inoltre, sarebbe arrivata Ava per il suo solito allenamento.

Io avevo ignorato il pattinaggio per un bel po' di tempo, complice l'infatuazione improvvisa e intensa per Blake e il rapporto – ormai sgretolato – con Lewis. Ad accompagnare quell'amore appena sbocciato, fresco come il più rigoglioso dei fiori primaverili, però, non erano mancati i ripensamenti, i dubbi, il nome di Dom che si rincorreva celere negli scomparti della mia mente.

Quel giorno, perlomeno, avrei potuto scacciarli a ritmo di trottole e salti, nonostante i dolori fisici che avevo tentato di placare durante la mattinata, con un antidolorifico trovato per caso tra i medicinali abbandonati nell'armadietto del bagno.

Così, senza avere una vera coreografia da provare o delle figure da migliorare, mi gettai in pista e iniziai a riscaldarmi. I muscoli si tesero, riacquisirono la loro forza, e la fronte mi si imperlò del sudore dovuto all'afa di fine luglio.

Anche se avevo accantonato quella mia passione per giorni, non potevo negare il senso di spensieratezza che mi inebriava ogni qualvolta che tornavo sulle quattro rotelle. Soffocai la sofferenza causata dalle percosse riducendola a semplici sospiri o brevi pause, e improvvisai una trottola verticale che mi costò non poca fatica. I miei polmoni stavano iniziando a non reggere lo sforzo che ne derivava; prendere respiri profondi stava diventando arduo.

Dannate sigarette, pensai. Nicotina e tabacco stavano incenerendo quel poco di stabile che avevo costruito, un hobby nato per un caso fortuito del destino. Ero convinta che, se ci fosse stato ancora Dom ad allenarmi, con la sua serietà che mai trapelava se non in pista, mi avrebbe fatto la ramanzina. Non sopportava che io mi facessi del male, neanche nei modi più banali e diffusi.

Fu un rumore sordo, però, a interrompermi. Un materiale duro che impattò contro un altro e, nel voltarmi, mi accorsi che si trattava del borsone di Ava, che quest'ultima fece cadere sulla panca di legno. Nel momento in cui la guardai, anche le sue pupille si concatenarono alle mie; mi fissò seria, venata dal rimprovero a cui non diede voce, e sul suo viso angelico campeggiava un piccolo cerotto bianco a coprirle il naso. La curiosità sorse spontanea, ma, nella mia testa, l'unica opzione possibile era ben delineata: l'artefice era la stessa dei miei lividi.

«Dio, Rylee, che ci fai qui?» quasi esclamò, rompendo quel silenzio riflessivo durato più del dovuto. I suoi passi emisero un'eco nella pista vuota, nell'avvicinarsi a me. Fui travolta dal suo abbraccio, dal calore del suo corpo che risultò quasi fastidioso, sposato con l'afa estiva. A quel contatto, con le sue braccia attorno al mio collo e le mie a circondarle la vita, tutta la tensione e l'ansia accumulate si dissiparono. «Sei pazza, stai bene?»

Mi limitai ad annuire, muovendo il capo che sfregò contro la sua spalla, coperta solo dalla spallina della canotta nera che indossava. Nemmeno dopo averle regalato quella certezza, però, si separò da me, e mi strinse con ancora più intensità fino a farmi sussultare per il dolore causato dall'ematoma ottenuto in seguito al calcio che quella psicopatica mi aveva assetato. Non gemetti per non destare in lei alcuna preoccupazione, ma mi scappò un respiro più lungo e profondo, che ben si discostava dalla regolarità con cui ero solita prendere fiato in pista.

Lo Skylite era abbracciato dal silenzio, giustapposto al cinguettio degli uccellini rintanati sugli alberi all'esterno, il cui suono pacifico entrava dalle finestrelle aperte. Il sole indorava la pista con i suoi raggi, caldi e vivi, e quando Ava si staccò da me le iridi smeraldine furono impreziosite da quella luce brillante. La pelle era arrossata, ma il cerotto copriva in parte quel pigmento dovuto all'ipotetico colpo infertole. Anche così, però, rimaneva una delle ragazze più belle che io avessi mai visto – e invidiato –, che passeggiava a braccetto con l'indicibile splendore del suo gemello.

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