EXTRA - Nora (pt. II)

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Worcester, Massachusetts, 1978

Un anno.

Trascorse un intero anno da quando Nate, quella notte, mi abbandonò per le strade del Bronx di Bogotá per fuggire negli Stati Uniti e ritrovare suo padre. Di come stesse procedendo la sua impresa, però, io non ne sapevo nulla. Dopo essere sparito in direzione dell'aeroporto, ignaro di quale volo avrebbe preso e di dove sarebbe atterrato, aveva troncato ogni contatto con me.

La mia vita era rimasta vuota, la mente apatica ma sofferente per la sua assenza.

Durante quei mesi, tra i membri del cartello si era parlato solo della repentina scomparsa di mio padre. Era stato arduo cucirsi la bocca ed evitare di far trapelare anche il più insignificante particolare riguardo la sua morte, ma mi impegnai per salvaguardare la mia posizione e, soprattutto, la libertà del mio fratellastro, che avrebbe rischiato il carcere a vita dopo quell'omicidio e le attività illecite che l'avevano preceduto. Quindi ero rimasta lì, chiusa in un silenzio opprimente, a occuparmi con meticolosa attenzione di tutte le questioni del narcotraffico, anche se il cognome che portavo mi stava schiacciando con il suo peso gravoso.

Fin dal primo istante, avevo coltivato il desiderio di fuggire dalla Colombia senza lasciare traccia alcuna, ma era risultato impossibile e il motivo non era stato solo il mio legame indissolubile con la droga. L'operazione condotta a Medellín un anno prima, infatti, mi era costata nove mesi di tortura, perché avevo portato in grembo il figlio di un Gaviria*. A fregarmi fu il nostro amplesso privo di protezione. Una volta partorito nelle peggiori condizioni, decisi di liberarmi del neonato riportandolo al padre, dopo un viaggio in macchina che durò allo stremo, tra pianti e rigurgiti. Voci di corridoio dicevano che il bambino fosse stato chiamato Hélmer*, e che di lì a qualche anno avrebbe tenuto le redini di uno dei cartelli più potenti e influenti di tutto il territorio colombiano.

Eppure, in quella notte cheta e poco sospetta, riuscii ad arrivare negli Stati Uniti per realizzare l'unico mio obiettivo: ritrovare l'unica persona che io avessi mai amato e riprendermi ciò che mi era appartenuto fin dal primo istante. Bramavo amore e controllo, ma era trascorso un intero anno da quando entrambi mi erano stati strappati via.

L'unico volo disponibile era per Boston, sulla costa orientale. Ma una volta atterrata lì, la grandezza della metropoli mi era parsa soffocante, insieme all'insistenza degli sguardi della miriade di persone. Lì, al Nord, i sudamericani non erano sempre i benvenuti.

Sentivo il disperato bisogno di tranquillità, di un luogo in cui nessuno mi conoscesse, così salii sul primo autobus diretto verso una cittadina poco distante. Fu così che, mentre il sole iniziava a calare dipingendo sfumature calde nel cielo, quella sera stessa mi ritrovai nel centro di Worcester.

Non conoscevo una singola via di quel luogo. Alcune macchine sfrecciavano per le strade, probabilmente di ritorno dal lavoro, e il venticello fresco che soffiava dall'oceano ormai distante mi carezzò la pelle vestita di stracci, oltre a portarsi via decine di manifesti colorati. Passeggiando senza meta, ne afferrai uno: tra i bordi consumati spiccavano lemmi inveenti contro l'Unione Sovietica, a dimostrazione della tacita guerra che si combatteva con i territori oltreoceano.

Lo lasciai cadere sul marciapiede, in preda a uno sbuffo di arrendevolezza. Parte dei miei soldi era già stata sperperata per quel viaggio senza meta; io ero sola nel Massachusetts e ignara di dove cercare Nate.

Per quella sera, però, volli obliarmi di tutte le preoccupazioni che mi attanagliavano lo stomaco. Passo dopo passo, il cielo cominciava a scurirsi e le insegne di locali e negozi erano le uniche luci che accompagnavano i lampioni. Tra tutte spiccò quella rotonda del Pint, con il suo contorno bianco illuminato, quindi vi entrai. Era un bar semivuoto, in cui riecheggiava solo il sottofondo di un motivetto rilassante e il tintinnio di bottiglie e bicchieri. Le luci soffuse conferivano calore alla sala, soprattutto alla zona del bancone, così decisi di sedermi a quest'ultimo. Gomiti puntellati sulla superficie, mi guardai intorno: a qualche sgabello da me sedeva un ragazzo solo, con l'esclusiva compagnia di un bicchiere di liquido ambrato e cubetti di ghiaccio. Piccole onde di capelli castani gli incorniciavano il viso chiaro e lentigginoso, le ciglia scure gli adombravano le guance e il suo profilo era un insieme di linee decise, ma disegnate con grazia. Era l'incarnazione della purezza annientata dalle sorsate di alcol che ingeriva di tanto in tanto.

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