EXTRA - Lewis

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Il tragitto verso casa fu marcato da un silenzio pregno di tensione, ma che al tempo stesso lasciava trapelare l'angoscia che si annidava nel corpo e nella mente di Rylee.

Ogni tanto le scoccavo una breve occhiata, ma lei non ricambiò mai le mie attenzioni. Era immobile, con il capo addossato al finestrino dell'auto, i capelli spettinati e le palpebre socchiuse per la stanchezza. Non sapevo se stesse dormendo, ma non la disturbai.

L'unico momento in cui lo feci fu quando arrivammo nel parcheggio sotto la nostra palazzina, immerso nella fitta oscurità notturna, sferzata solo dalla luce dei lampioni sparsi nella zona. Non fui invadente, perché il senso di colpa verso i miei comportamenti era già abbastanza grande. Al contrario, mi limitai a picchiettare un dito sul suo braccio affinché si svegliasse.

La vidi muoversi, riassestarsi sul sedile dalla tappezzeria logora. Mugolò qualcosa di incomprensibile e, solo dopo aver realizzato di essere desta e vigile, mi guardò.

Avevo smesso di vederci Rylee, in quegli occhi. Le sue iridi d'un marrone caldo avevano perso lo scintillio che la caratterizzava fin da quando era bambina, il brillio giocoso e allegro che si era affievolito. Non ne scorgevo neanche un benché minimo barlume. Era una luce che si era spenta per la seconda volta nella sua vita, dilaniata dall'amore che lei aveva sempre vissuto al massimo dell'intensità.

Non aveva mai voluto capacitarsi del fatto che superare i limiti portava a pericoli, e che questi ultimi costituivano la retta via verso la sofferenza. Era testarda, la conoscevo bene, e avevo provato costantemente a dissuaderla dalle emozioni in cui si stava avventurando. Forse, però, l'avevo fatto con i modi sbagliati.

Non mi rivolse parola alcuna. Fece scattare la portiera della sua auto, di cui stringevo il volante tra le mani, e scese dal veicolo. Io emulai i suoi movimenti e la seguii nell'androne della nostra palazzina, che raggiungemmo in una manciata di secondi.

Salimmo le scale in silenzio, un mutismo interrotto dal ronzio emesso dai vecchi lampadari dei singoli ballatoi. Eppure, io non le tolsi gli occhi di dosso per un solo istante. Era debole, e l'unica mia volontà era quella di tenerla sotto controllo affinché non crollasse a terra per lo sfinimento. Non contemplavo nessun secondo fine.

Gradino dopo gradino, la frangetta le rimbalzò sulla fronte imperlata di sudore e lei litigò con gli orli dell'uniforme stretta. Odiava la divisa del Kenmore, me l'aveva sempre detto. Repressi un sorriso, quando mi resi conto che almeno quel dettaglio di lei non era svanito nel nulla, mangiato dal dolore.

Arrivammo al nostro appartamento in pochi minuti. Le chiavi tintinnarono nel momento in cui le afferrai, intrappolate nella tasca del mio pantalone, e con esse sbloccai la serratura. Spalancai l'uscio dinanzi al suo sguardo prostrato, segnato dalle occhiaie profonde.

Anche se il quadrilocale era in perfetto ordine, lei non sembrò notarlo e fui colpito da una punta di delusione. Mi ero impegnato per rimuovere tutto il soqquadro che ci caratterizzava, solo perché speravo potesse farle piacere, una volta rientrata a casa dalle sue notti infinite trascorse in ospedale.

Nonostante le discussioni e i litigi, non avevo smesso di compiere gesti per lei. Erano piccoli, talvolta impercettibili, ma c'erano. Eppure lei non li vide mai, perché erano celati dal mio spesso strato di egoismo nelle scelte e impulsività nei discorsi. L'avevo insultata, maltrattata, quasi malmenata fino a qualche ora prima. Un lato incontrollabile di me che odiavo e che non riuscivo a sopprimere.

Non me lo sarei mai perdonato e covavo, in un angolo remoto della mia mente, la speranza che lei potesse ancora volermi bene.

Ignorandomi, andò a sedersi al tavolo da pranzo che campeggiava in salotto, appena dinanzi all'area del cucinino. Si sfregò i palmi sul viso, come a liberarsi di un dolore ormai incagliato in lei, impossibile da rimuovere.

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