Capitolo 30 (pt. II)

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Blake

«Tu mi hai proprio rotto il cazzo!»

L'urlo di Ava esplose nella notte ormai calata sull'Elm Park, mentre calpestava sonoramente il suolo sterrato per uscire dal perimetro dello stand.

Lo sguardo mefistofelico che le graffiava i lineamenti dolci era fisso su Nora, che non faceva altro se non guardarla, sondandone movimenti e intenzioni, immobile come una lastra di marmo gelido.

La privai della mia attenzione quando nel mio campo visivo entrò mia sorella, ora avventatasi sulla riccia. Nessun muscolo della colombiana guizzò; era impassibile, con il calcio della semiautomatica stretta nel palmo, il braccio steso lungo il corpo inerme.

I passi per raggiungere la rissa parvero pesanti, le scarpe sembravano essersi incollate al terreno polveroso. Li compivo, ma erano flemmatici. Oggetto della mia concentrazione era solo la voce stridula di Ava, che riverberava nel parco quasi vuoto, mentre riversava su Nora un quantitativo indicibile di insulti e minacce.

«Devi smetterla di perseguitare mio fratello!» strillò, e un pugno di dita si strinse attorno alla capigliatura della ragazza irremovibile su cui si stava sfogando; con presa salda, le reclinò il capo all'indietro. L'ispanica abbozzò un sorriso sadico. «L'hai già torturato una volta, non ti permetterò di farlo una seconda solo perché sei gelosa o perché vuoi i tuoi fottutissimi soldi indietro, è chiaro?» ringhiò. Il sussurro fu crudele, filtrato dai denti stretti, udibile solo per la mia inutile vicinanza. Quella che mi si parava davanti agli occhi era una versione di Ava che non auguravo a nessuno di vedere, in quanto cozzava immensamente con la sua indole pacata e solare; l'istinto a cui aveva ubbidito era l'acerrimo nemico della sua natura riflessiva. «Sei malata, Cristo, sei pazza!» la apostrofò. Anche l'altra mano le finì addosso, questa volta a serrarle la gola, nonostante lei non potesse far vanto di chissà quale forza. «Tutti quei cazzo di bigliettini», mormorò, «cosa volevi dimostrare? Tu non riavrai Blake. Scordatelo» le ordinò, ma Nora, ancora una volta, non si dimostrò urtata da quelle parole pregne di furia.

Il capo chino all'indietro, la colombiana guardava mia sorella dall'alto dei pochi centimetri che differenziavano le loro altezze. Le iridi imperscrutabili erano ulteriormente annerite dal buio, frammentato dalle scarse luci del luna park ancora accese, e spaventosa era la lentezza con cui sbatteva le palpebre per inumidire le retine. Le labbra tinte di rosso erano strette in una linea sottile, dura, e altrettanto deciso e meccanico fu il gesto che compì per puntare la canna della pistola contro lo stomaco di mia sorella. «Sai che non ho pietà, Ava» la avvertì. «Non provarci». Se prima ero deciso ad avvicinarmi cauto come se lei fosse stata la peggiore dei predatori, risentire quella voce da una distanza pressoché nulla mi congelò sangue e ossa. Il mio corpo venne pietrificato, parvi una statua. Un'inutile scultura su cui era intarsiato il terrore.

A ridestarmi dal mio stato di pura trance fu un movimento che scorsi con la coda dell'occhio: Ava, forse catturata da una morsa di impercettibile paura, mollò la presa sul collo di Nora e lasciò ricadere il braccio lungo il suo corpo esile. La afferrai per il polso, strinsi forte, e con ogni forza rimastami la tirai indietro.

Le iridi smeraldine mi rimproverarono con rabbia, in un miscuglio di brama di vendetta e allarmismo, che la portarono a proferire un inudibile: «Lasciami stare, Blake». Nel rigirarsi verso la latino-americana, però, quella dura affermazione sfumò in un urlo di dolore, quando la fronte di quest'ultima impattò contro il naso di mia sorella. Allora, intontita dal colpo e dai copiosi rivoli di sangue che le tingevano la pelle diafana, riuscii ad attirarla a me per mettere un punto a quella lite.

Quella psicopatica le aveva appena spaccato il setto nasale.

«Porca puttana!» strillò ancora Ava, inarrestabile, portandosi una mano alle narici per arrestare la fuoriuscita del liquido cremisi.

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