Capitolo 33

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Blake

La quiete regnava e i primi raggi di luce che penetravano attraverso la finestra erano filtrati da qualche nuvola sparsa nel cielo, ma quella tranquillità durò ben poco.

L'uscio della mia stanza era spalancato, perché la sera prima, preso dalla volontà di riposarmi accanto a Rylee che già dormiva, mi ero dimenticato di chiuderlo. Fu proprio attraverso quel passaggio non ostacolato che sentii un bussare lieve, cadenzato sulla porta d'ingresso dell'appartamento. Non sapevo nemmeno che ora fosse, ma probabilmente erano passati pochi minuti da quando il sole era sorto e il solo sentire qualcuno al di fuori di casa mia era un evento pregno di bizzarria.

I colpi seguivano un ritmo ben preciso; regolari, sembravano fatti apposta per non svegliare chi ancora dormiva. Quello fu il mio medesimo intento: con movimenti lenti, infatti, tirai via il braccio che cingeva la vita di Rylee, ancora appisolata e rilassata come un angelo, e mi misi a sedere sperando che non si accorgesse della mia assenza. Lasciando il letto vuoto, lei si sistemò meglio sul materasso, ma non si rese conto del fatto che oramai mi ero alzato. Come una bambina, strinse un angolo del lenzuolo in un pugno e continuò a dormire serenamente.

Nonostante fosse presto, il caldo e l'umidità erano già insopportabili. Le pareti sottili del quadrilocale conservavano i gradi, che via via si accumulavano, ed era come se non li rilasciassero mai, né di giorno, né tantomeno di notte. Quindi marciai immerso in quella calura fino a raggiungere il salotto annesso alla cucina, in cui si ergeva la porta d'ingresso. Il bussare non era cessato, ma era pressoché inudibile e poco fastidioso. Con quella calma tanto ostentata, avrebbe sicuramente potuto essere un vicino bisognoso di una mano con qualche mansione; lì, nella contea di Worcester, gli abitanti erano soliti aiutarsi l'un l'altro.

Ma dovetti ricredermi nel momento in cui sbloccai la serratura, e la diretta interessata fece capolino nel mio campo visivo.

I capelli ricci e folti profilavano onde perfette, stagliate sullo sfondo della parete chiara del pianerottolo alle sue spalle. Gli occhi scuri erano accesi dal ghigno assunto dalle sue labbra, sempre tinte alla perfezione, la cui cura cozzava con gli stracci che si accontentava di indossare. Visto l'andamento della sua vita, non aveva mai potuto permettersi qualcosa di diverso o di migliore; era un'esistenza basata sull'accontentamento, la sua, e nel possedere il nulla aveva sempre cercato di prendersi tutto, anche ciò che non le apparteneva.

Carnagione ambrata che sembrava sposarsi in maniera perfetta con i raggi dorati, iridi scure in cui bruciavano gli inferi: Nora, abbracciando tutta la sua deplorevole e ingannevole assenza di difetti, mosse il primo passo nella mia direzione e varcò l'ingresso dell'appartamento, mentre io, pietrificato, cercavo di sorreggermi tremante alla porta che le avevo aperto.

«Non dirmi che stavi dormendo» esordì, ma non issò il tono. Sapeva che non ero solo. «Ricordo una versione di te piuttosto mattiniera, sbaglio?»

Il suo problema era l'incapacità di andare dritta al punto e di comunicare i suoi intenti nell'immediato, soprattutto con me. Creava castelli di parole affiancati da sorrisi maliziosi, si prendeva la libertà di ritagliarsi gli spazi in tutte le sfere private degli altri, e non provava il benché minimo rimorso. Per lei, tutto era lecito, e il dolore altrui era la sua miglior terapia.

Chiusi la porta per seguirla con lo sguardo, catturandola mentre tirava indietro una sedia per accomodarsi. Accavallò le gambe e mostrò la disinvoltura che aveva sempre ostentato in casa mia, soprattutto sette anni prima, quindi si lasciò cadere sullo schienale. Si arrotolò un boccolo al dito inanellato, fingendosi distratta, eppure completamente concentrata su ciò che la attorniava.

Inabile di concederle una risposta, deglutii e repressi un primo accenno di debolezza. Nella mia mente dovetti ripetermi allo stremo che lei era lì per una ragione, per un patto che avevamo sancito e che io le avevo proposto con il solo fine di ricevere dolore, senza causarne agli altri. Deglutii il groppo duro che mi aveva occluso la gola nel momento in cui l'avevo rivista, e obbligai le mie gambe a muovere qualche passo verso il mobile della cucina, al quale mi appoggiai. Perlomeno, era presente qualche metro a separarci e l'unica sua arma, per un po', furono sguardi intrisi di malevolenza.

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