Capitolo 47

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Rylee

Fuori alle finestre dell'ospedale, la luce aveva lasciato il posto al buio precoce di fine estate. Brillavano solo i lampioni che costeggiavano le strade, nella coltre notturna; l'oscurità era l'unico bersaglio della mia attenzione, quella sera, mentre sedevo nella sala d'attesa silenziosa.

Avevo trascorso lì infinite ore. Dopo la notizia frettolosa ricevuta da Lydia, nel pieno di un panico che lei tentò di gestire, non avevo saputo far altro che rifugiarmi in una stanza vuota. Ava non c'era, ignoravo dove si trovasse e mi risultava difficile pensarci. Nella mia testa, non vi era altro se non un pensiero fisso, una riflessione ossessiva e crudele.

Stavo perdendo un'altra persona.

Non riuscivo a capacitarmene. Più quella situazione mi martellava il cervello, più si aprivano delle ferite impossibili da rimarginare. I battiti del cuore venivano a mancare e le lacrime spingevano per essere liberate, ma avevo esaurito la forza di permetterglielo. L'ultimo risvolto della situazione di Blake mi aveva prosciugata, dilaniando ogni energia rimasta.

Fissando il vuoto, mentre i ticchettii dell'orologio da parete scandivano i minuti, mi ero chiesta perché. Perché a me? Perché finivo per sottrarre al mondo tutto ciò che sfioravo?

Il mio amore si era portato via la vita di Dom a ventotto anni. Un sentimento simile, ora, stava rubando quella di Blake a soli ventisei. E io ero diventata un'immobile e impotente spettatrice di uno spettacolo di devastazione e meschinità.

Era inevitabile interrogarmi su quante cose sarebbero andate diversamente se solo non mi fossi avvicinata, se solo non fossi stata così tanto testarda da rimanere accanto a Blake malgrado ogni minaccia. La voce di Nora, del pericolo che lei stessa rappresentava, aveva echeggiato per settimane e io l'avevo solo ignorata. Accecata dall'infatuazione per lui, mi ero sentita invincibile, impossibile da scalfire. Ma quella battaglia mai voluta, alla fine, l'aveva vinta lei.

In un paio di mesi la mia ostinazione aveva portato sul lastrico una persona, e aveva distrutto un rapporto fraterno che teneva in piedi l'intero mondo della mia più cara amica. L'avevo svuotata di tutto solo per ubbidire all'istinto egoistico di tenere suo fratello al mio fianco, prostrata da quattro interminabili anni di solitudine.

Un'azione priva di altruismo, tuttavia, rimaneva l'unico modo di farmi perdonare. Quando tutta quell'agonia sarebbe giunta al termine, io mi sarei allontanata da Blake e Ava. Avrei smesso di generare problemi nella loro esistenza già minata da eventi indelebili, pur consapevole che una gran parte del mio cuore sarebbe sempre appartenuta a loro.

Io avevo ripreso a vivere, grazie ai Mitchell. A distrarmi, a vestirmi di una felicità che era diventata estranea. Ma loro meritavano la vita più di quanto essa spettasse a me.

Era stata un'estate di sorrisi, divertimento, brividi riscoperti al più mero degli sfioramenti, ma anche di sfide mai vinte e pericoli non scampati. Probabilmente non ero adatta a essere circondata da troppe persone. Se avessi tenuto le mani lontane da coloro che amavo, avrei risparmiato una sofferenza tanto atroce da artigliare il cuore.

Ripercorsi ogni giorno intenso, concentrata sul vuoto che aleggiava nella sala. Nessuna persona, fatta eccezione per il personale, si aggirava più per i corridoi dell'ospedale. Quella desolazione era lo specchio riflesso del modo in cui mi sentivo. Assente, inesistente. L'ottimismo e la speranza, due valori che avevo stretto fra le dita per non farmeli scivolare via, erano scemati.

I muscoli erano intorpiditi dalla stanchezza, le ossa dolevano. Avevo poggiato i gomiti sulle ginocchia; ero china in avanti, il viso sorretto dalle mani. Nelle mie vene scorreva una debolezza che non avevo le forze di manifestare: i condotti lacrimali imploravano di esplodere in un pianto liberatorio, ma lo respingevo. Non sapevo per quanto ancora le mie barriere avrebbero retto. Sarebbe bastata una sola parola per farmi cedere.

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