Capitolo 16

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Rylee

Il quattro luglio arrivò in fretta. Guardandomi intorno e studiando la folla con i miei occhi vispi e curiosi, mi resi conto di non aver mai visto tanta gente in un piccolo parco di Worcester. Si riversava come un fiume in piena tra gli stand e le attrazioni del luna park, i visi illuminati dalle luci colorate si muovevano al ritmo della musica circostante, e la mandria innalzava la leggera polvere dalla terra ai nostri piedi.

Stavo passeggiando senza meta accanto a Lewis, come di consueto. Quel giorno, il Kenmore era chiuso per via della festività e avevamo scelto di riposarci, per poi uscire la sera. Non avevamo ancora avuto occasione di divertirci sulle attrazioni a causa delle code infinite, ma tra una chiacchiera e l'altra quel desiderio passò in secondo piano. Avevamo la straordinaria capacità di trarre risate anche dai momenti più semplici, senza essere esigenti, da veri bambini cresciuti in un quartiere pericoloso e limitante, che ci concedeva il parco giochi come unica fonte di svago.

Parlando con lui, sorseggiavo una birra scadente presa all'unico stand frequentato da non più di una decina di persone. Il gusto non era piacevole, ma la bevevo solo per rinfrescarmi la gola e trovare un minimo sollievo dall'afa di inizio luglio.

«Non vedo l'ora di lavorare la sera del cinema drive-in», dichiarò il mio amico all'improvviso. «Mi dispiace che il Kenmore sia morto, ormai. Voglio rivederlo in vita».

Sapevo che lo diceva perché il locale apparteneva a suo padre, che per via di una condizione fisica invalidante non poteva più svolgere il suo lavoro e aveva affidato le mansioni al figlio – e a me, da vera bisognosa di uno stipendio. La sua speranza, che usciva così dolcemente dalla sua bocca, mi fece sorridere.

«Sono sicura che sarà meraviglioso» commentai. «Spero che non piova» aggiunsi, scrutando le nuvole che sferzavano il blu della notte imminente.

«Anche se così fosse, lo rimanderemmo solo di qualche giorno» mi rassicurò.

«Da dove salta fuori tutta questa voglia di lavorare?» gli domandai, ridacchiando. Dal brillio che screziava le sue iridi, capii che aveva colto lo scherzo nella mia voce.

«Credi che io sia pigro?» Mi guardò e, con un'espressione buffa, alzò un sopracciglio.

«Un pochino», sorrisi compiaciuta.

«Dillo ancora una volta, stronza» rise, intrappolandomi sotto il suo braccio. Con l'altra mano, mi spettinò i capelli e io mi dimenai per liberarmi.

Quando mi divincolai, lo osservai con gli occhi ridotti a due fessure, la scintilla di divertimento ancora presente nei suoi. «Dio, Christopher» sbuffai, sistemandomi i capelli. Prima di riprendere la parola, inghiottii un altro sorso di birra. «Non capisco come facciamo a essere ancora amici, io e te».

«Riflettici su mentre ti lascio sola, dolcezza» mi rispose. Lo guardai, non cogliendo il senso nelle sue parole, e lui non esitò a spiegare. «Non ho ancora chiamato i miei genitori, oggi. Volevo augurare loro un buon quattro luglio, e ciò significa che dovrò vagare per l'intero parco in cerca di una cabina telefonica». Con un soffio, spinse via una ciocca bionda che si adagiò sulla montatura sottile dei suoi occhiali.

«Vado da Ava, allora» lo informai. «Ci vediamo lì?» Mi arrestai quando gli posi la domanda, per guardarlo meglio e studiare il suo volto.

Lui annuì, iniziando a compiere qualche passo per allontanarsi.

«Non metterci troppo!» gli urlai, ma, nella folla, quelle parole si volatilizzarono.

Riprendendo a camminare tra famiglie felici e coppie innamorate, cercai con lo sguardo lo stand di Ava e Blake. I miei passi si susseguirono sul viottolo sterrato privo di fili d'erba ai miei piedi, calpestata dalla bolgia; nel frattempo, infilai la bottiglia di vetro ormai vuota in uno dei cestini della spazzatura.

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