Capitolo 4

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Rylee

Era notte fonda e davo le spalle al vuoto, appoggiata alla ringhiera fredda del balconcino del Brookdale Hospital. Ero immobile, scossa da brividi e tremori, ma talmente confusa da non rendermene conto. Non sapevo neanche in quale reparto mi trovassi.

Sentivo le lacrime ormai asciutte sul viso, secche; l'aria gelida me le faceva percepire il doppio, come tagli dal sangue ancora fresco.

Nel buio di quella notte di inizio novembre, le luci al neon del corridoio che si estendeva davanti ai miei occhi mi accecavano. Mi sarebbe bastato spingere il maniglione antipanico per entrare, percorrere a passi svelti quella lunga stanza cercando Dom dietro ogni porta.

Ma anche se ne avevo la possibilità, non mi muovevo di un solo centimetro.

Rimanevo ferma, con il vento che sembrava tagliarmi la faccia da quanto era freddo. Il naso arrossato così come le guance, le labbra screpolate e doloranti, gli occhi gonfi. Non c'era una sola parte di me che fosse simile alla normalità.

Passai ore in quelle condizioni. Da quando l'ambulanza trasportò qui Dom e me, avevo avvisato solo i miei genitori da una cabina posta nel piazzale dinanzi all'ospedale; quelli di Dom, invece, erano stati cercati dagli addetti del pronto soccorso tramite l'elenco telefonico locale. Erano corsi lì scossi dall'urgenza, ma non ci eravamo scambiati nemmeno una parola.

Volevo solo il mio ragazzo. Avevo il disperato bisogno di accertarmi che stesse bene, che quella pallottola non avesse colpito il cuore, anche se così pareva.

Mi invitarono a stare a riposo per alleviare lo shock, ma non ne volli sapere.

Volevo Dom.

Volevo urlare il suo nome per tutto l'ospedale, da un piano all'altro, nella speranza che mi rispondesse. Sentivo la necessità di dare sfogo alla paura, all'ansia e alla disperazione che mi stavano mangiando le viscere. Le mie mani tremavano in preda all'angoscia. Mi aggrappavo alla ringhiera alle mie spalle, stringevo l'orlo dei miei vestiti, cercai di provare del dolore.

Niente sembrò avvicinarsi alla morsa di terrore che mi stringeva lo stomaco da un tempo infinito.

Così entrai. Percorsi tutto il corridoio. Mi guardai intorno con gli occhi sgranati come se fossi stata un animale selvatico in cerca di cibo. Non avevo più il controllo su ciò che facevo. Udivo solo la frase ripetuta dalla mia mente, infliggendomi mille pugnalate: "È morto, è morto, è morto".

Più camminavo, più sentivo le gambe cedere. Le mie ginocchia tremavano e parevano in procinto di sgretolarsi, lasciando briciole di me sparse sul pavimento. Ai miei lati passeggiavano medici e infermieri, concentrati sulle loro mansioni, ma nessuno di loro sembrò curarsi di me.

Ero sfinita, svilita come se il sangue avesse smesso di scorrermi nelle vene. E vista l'agonia, un po' ci speravo. Pregavo di raggelarmi fino a rannicchiarmi a terra e morire, morire, morire.

Ebbi un capogiro e decisi di sedermi. Le sedie addossate alla parete erano dure e scomode, e per una manciata di minuti cercai una posizione che conciliasse il sonno che meritavo, ma che non riuscivo a prendere. Le luci erano troppo forti e l'ansia mi stava lentamente uccidendo.

Poi lo sentii. Udii una porta aprirsi e chiudersi subito dopo, vidi un medico uscire. Era una delle poche stanze a essere chiusa a quell'ora. L'uomo compì dei passi flemmatici nella mia direzione. Mi ci volle qualche secondo a capirlo, ma poi balzai in piedi: era lì per parlarmi. Avevo la vista offuscata perché non mettevo qualcosa sotto i denti da ore, ma tentai di concentrarmi.

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