Capitolo 10

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Rylee

L'aria, a Brownsville, era poco più respirabile rispetto a quella di Worcester. Faceva un caldo insostenibile, ma l'umidità era di gran lunga meno opprimente.

Ero nel mio quartiere natale da ormai qualche ora. Ne avevo approfittato per salutare i miei genitori, che avevo avvisato del mio arrivo fermandomi in una stazione di servizio che a malapena si reggeva in piedi, e poi avevo deciso di riposarmi dopo la prima, turbolenta parte del pomeriggio.

Quando uscii dal complesso di appartamenti nel quale avevo vissuto fin da piccola, il sole era ancora alto nonostante fosse quasi sera. Salii a bordo della mia auto e appoggiai, sul sedile accanto a me, il walkman con una cassetta già inserita e una fotografia incorniciata che ritraeva me e Dom il giorno del nostro primo Natale insieme, festeggiato a casa dei miei. L'avevo presa di nascosto da un mobile nel mio vecchio salotto, su cui mia mamma collezionava immagini raffiguranti ogni momento bello, degno di essere ricordato. L'avevo spolverata e, senza farmi notare, l'avevo portata con me. Strinsi il volante tra le mani e feci un respiro profondo. Direzione: cimitero.

Non mettevo piede al Canarsie Cemetery dal giorno successivo al funerale di Dom. Quello di non presentarmi alla cerimonia non fu un gesto egoista, né tantomeno volevo indurre a credere che non me ne importasse affatto. Desideravo solo che il mio addio fosse più intimo, un saluto di parole sussurrate tra me e lui, privo di un pubblico ad ascoltare la nostra silente conversazione. Parteciparono persino i miei genitori. Ci pensai lungo tutto il tragitto, che percorsi sotto il sole cocente per una scarsa decina di minuti.

Quando arrivai a destinazione, il parcheggio era vuoto. D'altronde, chi avrebbe sprecato una giornata d'estate al cimitero, davanti a fredde lapidi di marmo, se era possibile dedicarsi a passatempi più divertenti? Nessuno, tranne me e qualche anziano in visita ai propri cari.

Afferrai la fotografia e il walkman, poi scesi dall'auto ormai posteggiata. La cornice marrone brillava sotto i raggi dorati, così come la plastica del mio aggeggio. Varcai il grande cancello arrugginito e percorsi tutto il vialetto ciottolato che, nel silenzio, sotto i miei passi, emetteva il fastidioso rumore delle pietre che stridevano l'una contro l'altra.

Gli alberi erano sparsi per i vasti prati ben curati e ombreggiavano parte delle lapidi. Alcune bandiere a stelle e strisce marcavano la presenza un insieme di tombe e targhe, a ricordare le vittime delle spedizioni militari minori, indirizzate verso la parte opposta del mondo. La cosa peggiore era che quelle vite stroncate erano state troppo brevi.

Nonostante io ci fossi stata solo una volta in quattro anni, ricordavo benissimo la posizione della lapide di Dom. E dopo cinque minuti di camminata a capo chino, invitando il mio cervello a non farmi cedere, arrivai. Alzare lo sguardo fu l'equivalente di una scarica di dolore straziante al cuore, come se qualcuno si fosse divertito ad appiccare un incendio alle sue pareti. Leggere Dominic Morgan inciso sulla lastra di marmo grigio era ancora surreale. Accanto al suo nome vi era una foto che lo ritraeva, solare, giovane e sorridente, con la barba appena accennata e curata visti i suoi ventotto anni. Sotto quei due elementi, invece, facevano capolino un paio di pattini consumati e delle fotografie, tra cui alcune con me.

Mi sedetti di fronte a essa. Il prato mi accarezzo le gambe scoperte e il sole mi scaldò la pelle fino a essere insopportabile, ma decisi di non farci caso. Strinsi le ginocchia al petto e appoggiai il mento su di esse, godendomi alcuni effimeri istanti di silenzio totale. Poche volte alzai lo sguardo verso la lapide; osservavo, infatti, solo i fili d'erba, immobili per l'assenza di vento. A terra, al mio fianco, giacevano la fotografia e il walkman con gli auricolari.

«Non sai quanto mi stia costando non mettermi a piangere» mormorai all'improvviso. Ci misi un po' a rendermi conto di aver parlato per davvero. «Tu mi dicevi sempre di non farlo, quindi dovrei cercare di accontentarti, anche se negli ultimi giorni è stato difficile». Tentai di mettere in ordine le parole per intavolare un discorso sensato, ma le mie idee formavano un nodo così stretto da non essere districabile. «Ti ricordi di Lewis?», chiesi inutilmente: era ovvio che lo rammentasse, e anche se così non fosse stato, non avrebbe potuto rispondere. «Ti saluta e ci teneva a farti sapere che si sta prendendo cura di me, proprio come volevi tu...» Mi imposi di sorridere, o almeno di provarci. Poi mi rintanai in un altro silenzio.

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