Capitolo 36

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Blake

Dalla finestra penetrava una luce pallida, fredda, frutto dei raggi filtrati dalla coltre di nubi che rendeva il cielo plumbeo e opprimente. L'aria era umida, nella mia stanza; le lenzuola mi si attorcigliavano al corpo e si incollavano fastidiosamente alla pelle, avvolgendosi intorno al mio fianco su cui spiccava l'inchiostro scuro del tatuaggio. La luminosità improvvisa era insistente contro le mie palpebre, opprimente sulle retine: l'intensità e il pallore mi indussero a chiudere gli occhi, ancora una volta, riparandoli con una mano aderente alla fronte.

Ogni volta che il cuore si produceva in un palpitio, alla mia testa arrivava una fitta di dolore, segno di un'emicrania bell'e buona. Le tempie si incendiavano quando il sangue veniva pompato in tutto il mio corpo, generando un dolore insopportabile e seccante. Sentivo i muscoli tesi, gli arti indolenziti, la bocca secca. Tra me e me, con un ringhio che emisi a causa degli acciacchi, mi maledissi di aver finito quella dannata bottiglia di tequila, la sera precedente.

Da quando Rylee se n'era andata per recarsi al lavoro, l'intero appartamento era piombato nel silenzio. Ciononostante, nella mia mente disinibita dall'alcol che mi circolava in corpo, udivo ancora i suoi singhiozzi riecheggianti tra le pareti e le sue preghiere sussurrate. Un mutismo che mi stava soffocando, accentuatosi dal momento in cui anche Ava uscì per dedicarsi allo stand del luna park in solitudine. Non avevo nemmeno cenato, perché lo stomaco si era ridotto a dimensioni minime e sembrava pronto ad accogliere solo i superalcolici capaci di farmi precipitare in uno stato di confusione e oblio, la migliore soluzione ai miei pensieri ossessivi.

Mi passai una mano sul viso, distendendo alcune rughe d'espressione e arrestando il mio irrefrenabile flusso di coscienza. Riaprii gli occhi, che furono nuovamente investiti da quel fascio di luce che mi turbò, e mi guardai intorno. La stanza non era in disordine, ma solo spoglia. L'unica cosa fuori posto era un paio di jeans addossato allo schienale della sedia e sormontato da una maglietta piena di pieghe. Gettai un'occhiata celere a me stesso: giacevo sul materasso a petto nudo, incapace di ricordarmi quando e come mi fossi spogliato, mentre le gambe erano coperte da un pantalone morbido a quadri. Avendo difficoltà nel rammentare come fossi finito in pigiama la sera precedente a quel risveglio traumatico, smisi di trastullarmi e mi alzai a sedere sul letto. Ebbi un capogiro, ma durò un decimo di secondo e riconquistai una visione nitida dell'ambiente.

Quando mi issai in piedi, la stabilità venne a mancare ancora di più. Barcollai sui miei stessi piedi, il peso del corpo che premeva sulle mie gambe stanche a cui ordinai di compiere qualche passo verso la porta della stanza. La testa doleva, una sofferenza acuta che non parve avere intenzione di chetarsi nemmeno quando oltrepassai la soglia e finii nel salone silenzioso. Nessun rumore e nessuna presenza: a farmi compagnia, quel giorno, era solo il ronzio del frigorifero in funzione.

Mia sorella non era in casa. La porta della sua camera da letto era spalancata, la corrente soffiava verso il salotto. All'esterno, realizzai, la pioggia estiva scrosciava ininterrotta, le gocce picchiettavano sull'asfalto ai piedi della palazzina residenziale e lucidava le carrozzerie dei veicoli parcheggiati. Il grigiore delle nubi incupiva l'atmosfera, generando un'unione di sensazioni confortevoli e scomode al contempo. Il brutto tempo, affiancato al mio pessimo umore dovuto ai postumi della sbornia, non era un ottimo compagno.

Ipotizzai che Ava si fosse trincerata nella quiete del poligono, dove tutto taceva da anni. La immaginai seduta alla scrivania a scribacchiare su qualche carta spiegazzata, senza l'eco di alcun colpo di arma da fuoco. Circondata dai trofei che portavano il nome dei Mitchell e dalle foto di famiglia, in fondo, quel luogo era una casa anche per lei.

Mi accorsi di essere pietrificato in un punto della stanza e, ridestandomi, mossi qualche passo lento e incerto verso il frigorifero. Solo allora adocchiai un foglietto verde spiccare sul bianco immacolato dell'anta dell'elettrodomestico. Alcune lettere disordinate si inseguivano con ritmo irregolare, arrivando a sfiorare un angolo tenuto saldamente da un magnete colorato. Avvicinandomi, riconobbi la grafia di mia sorella: tondeggiante, semplice, incapace di delineare una riga diritta.

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