Capitolo 15

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Blake

Il mese di giugno giunse velocemente ai suoi ultimi giorni.

Con le mani strette attorno al volante, ero ancora concentrato su quanto accaduto con Rylee la sera in cui aveva fatto visita al luna park. Un pensiero di cui non riuscivo a liberarmi, onnipresente nella mia mente, come se qualcuno l'avesse incorniciato e appeso a un chiodo irremovibile piantato nelle pareti del mio cervello. La mia voce bassa le si era insinuata nelle orecchie; le indicazioni che avevo impartito le avevano sfiorato i timpani e avevano tentato di calmarla. Le mani strette intorno alle sue, per tenere saldamente l'impugnatura della pistola e placare i suoi tremori, l'avevano carezzata nel modo più delicato possibile. Perché io non esageravo mai nel toccare una donna, nemmeno nei gesti più puri e ingenui.

Il motivo per cui stesse tremolando in quella maniera, tuttavia, io proprio non lo comprendevo. Ma mi aveva detto che non si sarebbe tirata indietro ed era stata in grado di dimostrarmelo.

Forse ero ancora impigliato a quel pensiero perché, sotto sotto, volevo scavare nei suoi segreti e scoprire il motivo di tanta incertezza nei movimenti che aveva compiuto, la causa della sua paura che aleggiava nell'aria e che lei aveva nascosto con un'invidiabile abilità. D'altronde, ero sempre stato curioso.

Che cosa celi dietro la tua maschera di sicurezza, Rylee?

Smisi di ossessionarmi con quella storia quando parcheggiai di fronte al poligono. Tirai il freno a mano, e Ava mi precedette nel fiondarsi fuori dal pick-up.

Quella mattina eravamo tornati in quel luogo per controllare che tutto fosse al suo posto. Occupati allo stand del luna park, non ci mettevamo piede da tempo e solo due banali certezze mi erano balenate nella testa, prima di arrivarci: l'accumulo di posta nella cassetta delle lettere e gli strati di polvere che campeggiavano sui mobili.

Scesi dal veicolo e, prima di infilare la porta già aperta da mia sorella, ritirai tutto ciò che avevo ricevuto. Non vi era niente di nuovo: bollette da pagare e annunci pubblicitari da gettare nella spazzatura. Ormai, il Mitchell Shooting Range era finito nel dimenticatoio; gli abitanti di Worcester erano troppo focalizzati sulla storia che gli orbitava intorno, per tornarci in tutta serenità.

La pioggia repentina di fine mese mi cadeva sui capelli; le goccioline, una dopo l'altra, scivolavano sulle ciocche e si infrangevano sul suolo, venendo assorbite dalla ghiaia ai miei piedi.

Quando finalmente entrai, trovai Ava seduta su una delle poltroncine davanti alla scrivania. Abbandonai la posta sulla superficie impolverata di quest'ultima e guardai mia sorella. Le gambe strette al petto e il mento poggiato sulle ginocchia la facevano sembrare più piccola della sua età, quasi fosse rimasta bambina.

In mano reggeva una delle foto incorniciate che conservavo nell'ufficio, oggetto della sua contemplazione. Riuscivo a riconoscerla anche da lontano: era una fotografia scattata il giorno di Natale, quando io ricevetti il primo fucile per bambini e sorridevo accanto a mio padre, e lei indossava il suo primo paio di pattini a rotelle, abbracciando mamma.

I ricordi dei momenti trascorsi insieme ai miei genitori erano sbiaditi, quasi fossi diventato cieco durante gli ultimi anni. Vedevo dei sorrisi lontani, sfocati come una ripresa di bassa qualità; abbracci sinceri inaspettati e parole di conforto sussurrate prima della buonanotte.

Non incontravo mio padre da parecchio tempo, ormai. Non avevo idea di come stesse sfruttando i pochi minuti di aria fresca che gli venivano concessi, né sapevo se la sua lucidità stesse degenerando o meno. Ero certo che dietro le sbarre, nel grigiore di una cella sporca e fredda, la sua razionalità non sarebbe durata a lungo. Le persone, anche quelle più libere, avevano sempre camminato sul sottile ciglio che divideva normalità e follia. Me compreso.

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