Capitolo 11

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Rylee

L'aria fresca mi accarezzava le gambe scoperte, mentre aspettavo l'arrivo di Blake seduta su un muretto umido sul ciglio di Dumont Ave. Gli unici rumori erano i fruscii delle fronde degli alberi che costeggiavano la carreggiata; intorno a me non volava una mosca, e rimanere fuori a quell'ora, in quel quartiere, non era affatto sicuro. Io lo sapevo bene e la paura rimontava in me, ma finsi di essere tranquilla.

Stretta nella giacca di Dom, reggevo lo zaino sulle spalle ed ero impegnata a vedere gli ultimi centimetri della sigaretta che si consumavano. Quando la carta e il tabacco bruciarono fino a sfiorare il filtro, buttai il mozzicone sul marciapiede e lo spensi, calpestandolo con la scarpa.

Era tarda sera. Sapevo che Worcester e Brownsville erano divisi da centoottanta miglia, in due Stati differenti, ma, dopo aver riflettuto, mi resi conto che era una questione di minuti, ormai. Blake sarebbe arrivato a momenti.

Le notti, in quel quartiere residenziale, mi terrorizzavano. Sia per il ricordo a cui le associavo, sia per la gente poco raccomandabile che si incrociava per le vie. Alcolizzati, senzatetto, spacciatori e criminali. La feccia.

Di conseguenza, sussultai quando un pick-up scuro accostò al marciapiede. Non me lo aspettavo, assorta nei miei pensieri e distratta com'ero. Ma nel momento in cui scorsi il profilo di Blake, definito e cesellato come quello della sorella, scacciai via quell'effimera sensazione di terrore. Mi alzai in piedi e mi avvicinai al veicolo, aprii la portiera ed entrai. Mi sedetti sul sedile del passeggero, la cui tappezzeria era logora, poi appoggiai lo zaino ai miei piedi. Nell'abitacolo illuminato solo dai lampioni esterni regnava un forte odore di pino – immaginai che fosse il profumo di Blake.

«Buonasera, sventurata». Era in vena di scherzi e glielo lessi negli occhi. Potevo scorgere il verde delle sue iridi grazie alla luce fredda che fendeva l'oscurità, così come la spruzzata di lentiggini che gli adornava il volto, contornato dai capelli lunghi che gli sfioravano le orecchie e la mandibola.

«Prima regola: non si parla delle mie disavventure» puntualizzai, ma non potei nascondere l'accenno di un sorriso divertito. Chiusi la portiera. «Voglio solo tornare a casa», sospirai sconfitta, abbandonandomi contro lo schienale del sedile. La morbidezza di quest'ultimo accolse la mia stanchezza come se fossi stata su un vero letto.

«Avrei mille domande, ma non mi sembra il caso di portele», ridacchiò. Mise in moto l'auto, immettendosi nuovamente sulla carreggiata. «Solo... cosa ti ha portata qui a New York?»

«Io sono newyorkese, Blake» gli spiegai.

«Oh, pardon. Credevo che anche tu fossi una vera abitante di Worcester, dimenticata dal mondo».

«Ti rendi conto del quartiere di merda in cui vivevo? Worcester è mille volte meglio» commentai, muovendo la mano nell'aria per indicare l'ambiente circostante.

Non rispose. Non fu a causa dell'imbarazzo: ero quasi certa che non sapesse cos'altro aggiungere alla conversazione.

Durante tutta la tratta che percorremmo in silenzio fino al casello autostradale, mi appoggiai al finestrino e guardai il quartiere di Brownsville scorrere davanti ai miei occhi. Anche se odiavo quel posto con tutta me stessa e la paura mi scorreva nelle vene, lasciarlo riusciva sempre ad adagiarmi un peso gravoso sul cuore. Era il luogo in cui ero nata e cresciuta; il posto in cui avevo conosciuto Lewis, passando con lui infanzia e adolescenza fino al giorno del suo trasferimento nel Massachusetts. Trascorrevamo le ore insieme nel parco giochi vicino al mio complesso di appartamenti e ogni occasione era buona per fare amicizia con altri bambini della zona. Ero consapevole del fatto che non eravamo mai stati davvero al sicuro: era un quartiere pessimo per i più piccoli, ma noi eravamo cresciuti chiusi in una bolla di ignoranza, perché nessuno ci aveva mai avvisato per evitare di spaventarci.

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