Capitolo 19

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Rylee

"Il pattinaggio è un insegnamento di vita: quando cedi, devi trovare la forza di rialzarti, nonostante i lividi e le ferite, per tornare a puntare in alto e compiere un altro salto."

Con il walkman agganciato sul retro dei miei pantaloncini elasticizzati e gli auricolari che si annodavano intorno al mio corpo, stavo lavorando alle figure sui pattini in cui avevo maggiore difficoltà. La voce calda di Dom scandiva i lemmi con precisione, le lettere delle sue frasi si susseguivano lente, accarezzandomi i timpani con la loro delicatezza.

Nonostante il caldo e la luce solare insistente, quel giorno mi stavo allenando all'Elm Park per lasciare la pista dello Skylite libera per Ava. La distesa di prati e alberi era deserta: il luna park, distante dal quadrato di cemento che mi aveva accolta, era chiuso e silenzioso; le poche persone presenti si godevano le zone d'ombra, sotto platani e querce dalle grandi dimensioni. Nell'aria aleggiava un lieve odore di cibo, forse dovuto al carretto che, poco lontano da me, serviva panini caldi ai bambini. Oltre alla registrazione che veniva riprodotta nelle mie orecchie, l'unico suono che faceva da sottofondo era il canto degli uccellini, annidati tra le fronde degli alberi.

Le parole di Dom erano fonte di una sicurezza che, da quando l'avevo perso, non avevo più avuto. Le rotelle che scorrevano sul suolo liscio, infatti, mi sembrarono sinonimo di libertà e non più di pressione, come invece accadeva allo Skylite, sotto lo sguardo attento di un'atleta talentuosa come Ava. Non mi allenavo con quella leggerezza da quando mi ero trasferita, forse per il mio costante e asfissiante bisogno di paragonarmi alle abilità altrui, infliggendomi solo ulteriori crucci.

Lì, nel bel mezzo del parco, non ero vittima di nessun occhio giudicante, né di malelingue. Ero solo io, in compagnia dei miei pattini, dell'impossibilità di un triplo Axel e della semplicità di un Salchow. E quella solitudine, malgrado fossi perseguitata da paranoie e pensieri assidui, mi stava rigenerando. L'allenamento improvvisato, in cui ero io a decidere gli elementi da compiere, stava tirando fuori il meglio di me e, dopo tanto tempo, ritrovai la vera essenza di quello sport.

"Ho un ricordo molto vivido delle prime volte che hai pattinato con me, sulla pista in cui ti portavo a Bergen Beach.
Avevi sempre paura di cadere e di farti male, come se un livido o un graffio fossero incurabili. E allora venivo da te, ti stringevo le mani e ti rimettevo in piedi.
Mi hai reso incredibilmente fiero di te quando hai imparato a rialzarti da sola, e ogni caduta ha iniziato a essere un pretesto per ridere.
È lo stesso modo in cui dovresti affrontare i problemi."

Staccandomi da terra con l'intento di eseguire un Lutz, chiusi gli occhi durante il volo e pensai a quanto quelle parole si stessero rivelando menzognere. Me ne accorsi quel tre novembre di quattro anni prima, quando i tagli inflitti dalla frase pronunciata dal medico non risultarono davvero curabili. Stavo ancora sanguinando e utilizzavo sorrisi come cerotti, sarcasmo come bende, per non destare preoccupazioni in chi mi circondava. Lewis, perlomeno, aveva sempre provato a donarmi un paio di braccia in cui trincerarmi e una mano gentile che mi asciugasse le lacrime, ma non era mai stato abbastanza.

Come poteva bastare se, ogni giorno, la parte più importante di me svaniva, invece di venirmi incontro? Come diamine potevo accontentarmi di vocaboli confortanti se la mia unica necessità era quella di essere rimessa insieme, pezzo dopo pezzo?

Decisi di distrarmi da quelle riflessioni compiendo una trottola ad angelo. Per un istante tanto effimero quanto significativo, la visione sfuocata del parco che ruotava intorno a me riuscì ad allontanare i pensieri che mi assillavano, e la voce di Dom tornò a sovrastare quella della mia mente.

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