Capitolo 37

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Rylee

Il mese di agosto iniziò e, con il suo avvento, non scemò nemmeno un briciolo della pesantezza dell'ultimo periodo. Complice la calura insopportabile a incrementare il mio nervosismo, tra le pareti del Kenmore mi sentivo soffocare, a pochi minuti dalla fine del mio turno mattutino. Continuavo a guardarmi distrattamente intorno, strofinando un canovaccio asciutto sulle stoviglie appena lavate e impilando piatti dalla ceramica vecchia e venata di crepe. In quella tavola calda, ogni giorno, si accumulava l'umidità e si sommava in maniera seccante all'odore dell'olio vecchio delle friggitrici e del bacon rosolato sulla piastra. I capelli, raccolti nella solita coda disordinata, mi si incollavano al viso e l'uniforme succinta iniziava a starmi troppo stretta.

Nel locale regnava il silenzio. L'ultimo cliente interessato alla colazione prima di recarsi al lavoro aveva varcato la soglia da un po', abbandonandosi alle spalle quel ristorantino dimenticato da tutta Worcester e ormai sulla via del fallimento. Quella quiete mi induceva solo a costruire castelli di pensieri ossessivi che si ripetevano a oltranza; nella mia testa c'era Blake, c'era Ava, c'era Nora e il modo in cui mi aveva rubato il minimo bagliore di felicità che avevo conquistato per farlo sfociare nella mestizia.

Tutto, intorno a me, sembrava cristallizzato. Il pulviscolo atmosferico aleggiava nell'aria densa e pesante, illuminato dai raggi insistenti del sole che battevano sulle vetrate della tavola calda e scaldavano la pelle logora dei divanetti rossi. Il frigorifero delle bibite emetteva un lieve ronzio, il canovaccio appoggiato sul bancone si produsse in un fruscio di pieghe, ma tutto tacque l'istante dopo.

Una tranquillità irreale e rara, che venne interrotta solo dallo squillo improvviso del telefono del locale. Una serie di trilli che si diffuse nel silenzio con intervalli regolari, un ritmo che scandì anche i passi compiuti per avvicinarmi.

Afferrai la cornetta, la strinsi tra le dita e me la portai all'orecchio, accettando la chiamata in entrata. Credendo che si trattasse di un'inaspettata prenotazione o di un ordine takeaway per il pranzo, proferii meccanicamente la frase che Lewis mi aveva insegnato: «Kenmore Diner, buongiorno. Come posso aiutarla?»

«Niente panini o bibite, sono solo io» gracchiò la voce famigliare di Ava, che tentò di manifestare una vena scherzosa. La sua voce era tuttavia triste, sfinita dalla situazione che stava vivendo a causa del fratello. «Hai finito di lavorare?»

«Sto aspettando Lewis per staccare, ma sì» replicai. Incastrai la cornetta tra l'orecchio e la spalla, reggendola con la sola pressione, mentre con le mani mi impegnavo a sistemare i fogli stropicciati del taccuino che avevo abbandonato accanto al telefono dopo l'ultima ordinazione. «Tutto okay?» domandai, con l'intento di apparire calma. Essere in contatto con Ava, in quel periodo, era diventata più una fonte di paura che di sollievo.

«Sì, sì, tranquilla» si sbrigò a rassicurarmi. «Avevo solo bisogno di chiederti un favore, ma se oggi hai altro da fare lascia perdere».

«Il massimo che avrei potuto fare sarebbe stato dormire», ridacchiai. «Dimmi tutto».

«Non parteciperò alla gara di Boston». Quella fu con la confessione con cui esordì, così inaspettata da mozzarmi la voce. «È un periodo troppo difficile e non ho il tempo per lavorare, figuriamoci per allenarmi» spiegò. «Oggi devo andare allo Skylite per rinunciare al posto, così che trovino un sostituto, ma...» Fece una pausa e prese un respiro. «Non voglio lasciare Blake da solo», ammise.

«Oh, okay» mormorai, ignara di come altro replicare. «Hai bisogno che io venga lì?» le chiesi, quindi, incerta.

Il suo breve silenzio ne fu la conferma. «Ripeto, Lee, se hai altri programmi, stai tranquilla...» esalò.

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