Capitolo 43

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Rylee

Non mi era mai piaciuto guidare in piena notte, ma per arrivare in ospedale lo feci senza pensarci due volte. Percorsi le strade deserte e scarsamente illuminate di Worcester per una manciata di minuti, ancora bagnate dalla pioggia, cercando di non lasciarmi deviare dalla vista offuscata dalle lacrime e dalla stanchezza che mi ottenebrava la ragione. Tirai un sospiro di sollievo solo quando arrivai, e imboccai il parcheggio disegnato sull'asfalto.

Nel piazzale che si apriva dinanzi all'ingresso non volava brusio alcuno. L'unica luce presente proveniva dalle finestre dei singoli corridoi, pallida e fioca, accompagnata da qualche lampione disseminato sul ciglio delle aiuole poco curate che delimitavano l'enorme area.

In quel silenzio inquietante, feci scattare la portiera e scesi dall'automobile. Portavo ancora i capelli legati in due trecce da cui sfuggivano diverse ciocche, la frangia si incollava alla fronte imperlata di sudore; soffocata dalla divisa che iniziava a recarmi non poco fastidio, mi avviai verso l'ingresso dell'edificio.

Quello non era l'orario dedicato alle visite ai pazienti, pensai marciando verso l'interno la grande porta. La spinsi, faticando per il suo peso, e la lasciai andare una volta superata. Non m'importò di essere lì nel momento sbagliato, in cui corsie e reparti erano popolati solo dal personale: sapevo che la mia amica era lì, che non sprecava un solo secondo per andare a casa o per mangiare un boccone, e io non potevo tirarmi indietro e ignorarla. La stanchezza, infatti, passò in secondo piano; pestando i piedi sul linoleum, sembrò quasi che il dolore ai muscoli tesi potesse svanire, che la prostrazione fosse in grado di dissolversi nel nulla.

Il reparto di terapia intensiva era talmente cheto da poter udire i bip dei macchinari che tenevano in vita i pazienti. Provenivano da ogni stanza, insistenti come la voce martellante di un pensiero assiduo e ossessivo, mentre sfilavo dinanzi alle singole porte chiuse. Passo dopo passo, però, non potei evitare di soffermarmi su una di esse: fissai quell'imponente uscio color verde petrolio, che mi sovrastava e mi schiacciava. Non una finestrella, non un'indicazione. Non c'era modo di conoscere alcun dettaglio delle condizioni di Blake, e potei solo pregare che fossero migliorate nelle ultime ore.

Dentro di me, due voci combattevano una guerra che non conosceva la parola "fine". Una mi costringeva a essere realista, a guardare la situazione ragionando sul serio; l'altra, che voleva solo fungere da corazza per il mio cuore già devastato, urlava un inno alla speranza. E io scelsi di ascoltare la seconda.

Quindi ripresi a camminare. Non mi pietrificai a lungo davanti a una porta che non sarebbe stata aperta fino al giorno dopo, né decisi di fossilizzarmi sul pavimento duro. Al contrario, proseguii la mia camminata verso il distributore automatico addossato alla parete, relegato nell'angolo che collegava due corridoi distinti. Prima di andare a cercare Ava, infatti, volevo assicurarmi di poterle portare il minimo indispensabile, perché lei, come me, aveva vissuto giorni di digiuno e nausea perenne. Uno snack e una bottiglia d'acqua, per quella notte, sarebbero bastati.

Giunsi a quella scatola di ferro funzionante per miracolo nello stesso istante in cui vi arrivò anche l'infermiera dai capelli ramati. Probabilmente in pausa dal suo turno notturno, appariva più rilassata del solito. Portava le ciocche rosse raccolte in una crocchia ordinata, fissata sul retro della testa, ed era fasciata nella sua uniforme stirata alla perfezione. Solo allora, approcciando a quella zona del corridoio, mi accorsi della presenza di una spilla infilzata nel tessuto del taschino della divisa. Riportava nome e cognome, due informazioni che, da lei, non avevo ancora ricevuto, nella frenesia degli eventi che si erano susseguiti. Si chiamava Lydia Sheridan.

Mi vide nel momento in cui entrai nel suo campo visivo, quando mi posizionai accanto a lei dinanzi al distributore, costringendola a sostare tra me e la parete bianca. Mi studiò, intenta a infilare le monetine nell'apposita fessura, poi iniziò a rivolgermi la parola.

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