Capitolo 28

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Rylee

Blake non si fece né vedere e né sentire per una settimana.

Ci riflettei a lungo, durante quella mattinata al Kenmore, quando la pioggia scrosciava insistente all'esterno e il mio turno mattutino stava per giungere al termine.

Ogni piatto lavato corrispondeva a un pensiero concepito: quell'assenza bizzarra era stata la conseguenza del bigliettino che, quel giorno al poligono, aveva stretto fra le dita quando mi aveva invitato a non immischiarmi.

Un bicchiere asciugato era una verità assimilata: la faccenda di Nora era qualcosa di pericoloso da cui i fratelli Mitchell volevano che io tenessi le distanze, e mi escludevano da qualsiasi tipo di informazione.

L'ultimo cliente andatosene rappresentò una consapevolezza acquisita: non avrei potuto negare il mio aiuto a Blake e agire con freddezza nei suoi confronti neanche se avessi voluto, perché quella vicenda era più grande di lui, gli gravava sulle spalle e l'avrebbe schiacciato, se qualcuno non l'avesse retta insieme a lui.

Il problema era che lui, di essere aiutato, non ne voleva sapere. Scacciava ausili e accoglieva dolori, che interiorizzava a tal punto da nasconderli.

E io, allora, mi ritrovai a pormi la stessa domanda: cosa celi dietro la tua maschera, Blake?

Nei giorni che seguirono l'ultimo bigliettino ricevuto, avevo avuto solo l'occasione di ritrovarmi con Ava allo Skylite. A ogni mia domanda riguardante lo stato d'animo del fratello, però, lei mi aveva solo dato risposte vaghe e prive di utilità.

Un po', forse, mi rassegnai. Se Blake non riusciva ad accettare il fatto di essere affiancato nelle sofferenze e nei timori, avrei dovuto farmi da parte fin dal principio. Il labbro inferiore mi tremava al solo pensiero, e le sclere si velavano di un luccichio che tentavo di stroncare sul nascere.

Ci provai ancora di più quando, in quell'istante, il campanello posto sulla porta d'ingresso tintinnò e Lewis fece il suo ingresso. Avrebbe dovuto iniziare a lavorare a breve, occupandosi dei clienti venuti per il pranzo, e tutto ciò che fece prima di trincerarsi in cucina fu salutarmi con un cenno.

Nel vuoto del locale, la tensione presente fra di noi rimbalzava e creava un'eco così fastidiosa da essere assordante. Era un astio palpabile che era solo peggiorato dopo la discussione avuta una settimana prima, ma, anche dinanzi a quella difficoltà, la diedi vinta all'arrendevolezza.

Erano due situazioni diverse che mi avevano investita e martoriata in poco tempo, travolgendomi in tutta la loro intensità e potenza. Blake da un lato, che trascinava con sé l'impossibilità di stargli lontano e la mia conseguente propensione a indagare sul suo stato d'animo; Lewis dall'altro, con quell'indifferenza che, però, non aveva un effetto indifferente su di me.

Fu allora che nel locale riverberò un altro tintinnio. La porta scricchiolò, e, destando in me una visibile sorpresa, fu Blake a infilarla per mettere piede nella tavola calda.

Fradicio di pioggia, il suo corpo era sconquassato dai tremiti e dai singhiozzi, che confermai essere frutti del pianto quando il suo sguardo si incollò a me. Le screziature smeraldine dei suoi occhi erano spente, e sotto di essi regnavano sovrane due occhiaie violacee, sintomo della stanchezza che si portava appresso. Sfogava la sua debolezza nei pugni che stringeva lungo il corpo, le unghie conficcate nei palmi.

La vista delle lacrime che luccicavano sotto la luce al neon mi indusse ad accorrere a lui. Aggirai il bancone, abbandonando i miei doveri, e corsi nella sua direzione. Non mi persi in parole inutili: giunta dinanzi alla sua figura inerme e impotente, mi alzai sulle punte dei piedi e lo strinsi a me.

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