Capitolo 42

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Rylee

Andai al Kenmore quella stessa sera. Nonostante la prostrazione, i pensieri ossessivi e i muscoli indolenziti per la notte trascorsa sul pavimento dell'ospedale con Ava, sapevo di non poter ignorare l'ennesimo turno alla tavola calda. Anche se Lewis si era dimostrato comprensivo, detestava la mancanza di responsabilità, soprattutto se riguardava il locale della sua famiglia. Ci teneva e non potevo biasimarlo.

Il rombo del motore dell'auto sfociò nel silenzio quando parcheggiai il veicolo sgangherato. Estrassi le chiavi, che tintinnarono per il movimento repentino, e le infilai nella tasca della gonnellina, accanto al pacchetto di sigarette spiegazzato. Ero fasciata nella stretta uniforme del ristorante da ormai due giorni, prigioniera di quella stoffa attaccata al corpo, e l'unico cambio pulito disponibile era conservato nel bagno del Kenmore.

Studiai, per un'ultima volta, il mio riflesso nello specchietto retrovisore: le occhiaie lambivano il rigonfiamento delle guance, rosee per il caldo eccessivo dei primi giorni d'agosto; avevo le labbra arrossate dal pianto che, miracolosamente, era cessato. Se mi concentravo su tutto ciò che stava accadendo, potevo addirittura scorgere un velo lucido sulle sclere. Ma non potevo concedermi un altro sfogo, perché il mio unico obbligo era lavorare e portare a casa quel paio di spiccioli che mi permetteva di sopravvivere. Anche i capelli erano una manifestazione del mio stato d'animo, legati in una coda annodata e disordinata, ma decisi di sistemarli una volta entrata nel locale. Quindi non sprecai altro tempo, e dopo un sospiro sommesso scesi dalla macchina.

Investita dagli ultimi raggi fiochi di sole, filtrato dai nuvoloni grigi e in procinto di tramontare, mi fiondai tra le mura del ristorante. Il campanello tintinnò e le forti luci al neon, come di consueto, mi accecarono con il loro pallore. Con la coda dell'occhio scorsi Lewis: si affacciò alla porta della cucina e vagliò l'intera sala, concentrandosi sui miei movimenti. Camminai indisturbata, dinanzi a lui, troppo concentrata sulla mia meta per salutarlo.

«Buonasera anche a te» mugolò, confuso dal mio silenzio. Era un comportamento strano, da parte mia, soprattutto dopo che lui si era dimostrato più affabile e comprensivo durante la nostra ultima telefonata. Non volevo che pensasse che non avevo apprezzato quello sforzo, quella bontà repentina, così arrestai i miei passi e mi voltai nella sua direzione.

«Ciao», mormorai. Per qualche secondo, dalla mia bocca non scivolò via parola alcuna, e il mio sguardo era puntato verso le fughe delle piastrelle disposte a scacchiera. Quando lo rialzai, però, mi affrettai per proferire un altro paio di lemmi: «Scusami ancora per il turno di stamattina».

«Lee, ti ho già detto che non importa» ribadì. L'espressione sul suo viso si addolcì, diventò simile a quella del bambino che conoscevo e mi voleva ancora bene. Scoccò, poi, un'occhiata all'orologio da parete. «Vai pure a riassestarti un pochino, c'è ancora tempo» mi concesse.

Annuii lasciandolo privo di risposta e, senza perdermi in convenevoli inutili, ripresi a marciare verso il bagno angusto. Superato l'uscio, mi trincerai al suo interno e accesi la lampadina che, spoglia, pendeva dal soffitto, teatro di muffa per l'umidità e ragnatele negli angoli. Anche se ci impegnavamo per conferirgli un aspetto decente, il Kenmore avrebbe sempre respinto i clienti, piuttosto che attirarli.

Stanca di quell'uniforme, iniziai a frugare tra gli oggetti che ero solita lasciare lì per trovare il cambio. Fu allora che, fra uno scatolone e l'altro, la mia divisa pulita e perfettamente piegata saltò fuori. Non era il massimo: alla camicetta mancava un bottone, forse saltato per la fretta di allacciarla, e la gonna stringeva in vita, ma sarebbe stata di gran lunga migliore dei vestiti che non avevo sostituito per due giorni consecutivi. Quindi mi spogliai e la indossai, la stoffa asciutta aderì al mio corpo e ne evidenziò le curve poco pronunciate.

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