Capitolo 17

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Rylee

«Era proprio necessario che piovesse?» sbuffai, la fronte appoggiata al vetro freddo della finestra del locale. All'esterno, la pioggia estiva scrosciava ininterrotta.

Era la sera che avevamo prefissato per il drive-in, evento che aveva suscitato interesse fra gli abitanti di Worcester. Alcuni erano venuti a chiederci a che ora sarebbe iniziata la proiezione, altri volevano sapere quale fosse il film scelto... Il tutto, però, fu rimandato a causa del maltempo.

Io avevo aspettato quel giorno trepidante, e il cielo plumbeo sopra le nostre teste aveva deciso di ostacolare ogni piano. Nemmeno quella sera avremmo visto il Kenmore riprendere vita, rinascere dalle sue stesse ceneri. Il locale era silenzioso, fatta eccezione per il signor Rogers che sedeva in un angolo, intento a consumare la sua solita cena.

Come se non fosse bastato, avevo trascorso quelle ultime ore con la sensazione che tutto fosse nella posizione perfetta per infastidirmi. Ero più nervosa del solito; l'uniforme da cameriera era stretta, l'etichetta mi causava prurito sul retro del collo. Sembrava che i pianeti si fossero allineati per mandarmi al lavoro di malumore. In realtà, non era nulla di così grande a gravare sul modo in cui mi sentivo: erano solo i miei ricorrenti problemi femminili di cui Lewis rideva ogni mese.

«Andiamo, dolcezza, si tratta solo di rimandare la serata alla settimana prossima, viste le previsioni. Non è la fine del mondo» ridacchiò proprio il mio migliore amico.

Allontanandomi dalla finestra, mi voltai e lo vidi impegnato ad asciugare alcuni boccali con un canovaccio e uno stupido sorriso sghembo stampato sul volto. Io misi un broncio e non lo degnai di una risposta; incrociai le braccia al petto e mi appoggiai al bancone. Il freddo della superficie si arrampicò su per le mie braccia, disseminando la pelle d'oca.

«Va tutto bene?» mi chiese, poi, notando la mia espressione. Parevo uno straccio, tra i dolori al basso ventre e i pensieri che si rincorrevano.

Feci spallucce, ignara di come replicare. «Non sono dell'umore e la pioggia non aiuta».

«Vuoi mangiare qualcosa?»

Quella domanda, pronunciata in modo inaspettato, mi strappò un sorriso divertito. Nessuno all'infuori del mio amico era in grado di comprendere quanto un buon piatto mi rasserenasse. Non esisteva problema che il cibo non potesse risolvere.

Quell'accenno di felicità, però, ebbe vita breve. A interromperlo fu un groviglio di sensi di colpa che mi salì dallo stomaco al cervello e si trasformò in uno dei tanti pensieri intrusivi, pronti a smontare ogni mia certezza.

In quel periodo, il mio corpo mi piaceva meno del solito. Ogni pomeriggio assistevo agli allenamenti di Ava prima di ritagliarmi qualche minuto per me, vedevo la perfezione del suo fisico e del suo disco di gara, e mi crogiolavo nel timore di non essere abbastanza per la mia passione e per me stessa. Non mi piacevano le mie cosce quando ero seduta, che chiunque altro avrebbe ritenuto nella norma; detestavo il poco grasso sui fianchi, che ai miei occhi appariva eccessivo. Sebbene non fossi mai stata vittima di meschine prese in giro, ci aveva sempre pensato la mia mente a denigrarmi quando gli altri non lo facevano, a destare quel terribile senso di invidia e inferiorità che mi divorava le viscere.

Mi ero sentita amata una sola volta, nella mia vita: quando erano le sue mani a sfiorare la mia pelle e tracciavano una scia di punti di forza a sostituire le insicurezze.

Il peso di quel ricordo mi schiacciò, premette così tanto che una lacrima, purtroppo, uscì e rotolò giù per la mia guancia.

«Lee, che c'è...» sussurrò Lewis, riportandomi alla realtà. Il suo pollice mi sfiorò il viso e la gocciolina solitaria scomparì in seguito al suo dolce tocco.

SEMICOLONDove le storie prendono vita. Scoprilo ora