II.1) Un brutto sogno I

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Gli anni passavano e suo figlio cresceva, molto più in fretta di quanto Maria avesse sperato.

Da quando Michele Polese l'aveva ripudiata, la cittadinanza di Lagopece aveva interrotto qualsiasi rapporto con la famiglia. Tutti abbassavano la testa quando un Claps passava per strada, e presto i rapporti col mondo esterno si erano limitati a quelli essenziali col vicinato. Anche quando era morta sua nonna, che tutti in paese conoscevano, quasi nessuno aveva partecipato al funerale; il peggiore degli affronti per i canoni del Sud Italia, ma lei era ormai lontana dalle sciocche superstizioni della sua terra.

Pur avendo compromesso gli affari di famiglia, quell'isolamento dalla comunità non sembrava causare particolari fastidi a suo figlio: passava le giornate nel pollaio del nonno, a curarsi delle galline o a giocare nel fango, e il suo massimo divertimento era importunare i pochi che passavano per la via sul retro. A nessuno dei bambini di Lagopece era concesso di giocare con lui, o anche solo di parlargli, e così Michele si divertiva un mondo a tirar loro le uova, i pomodori o qualsiasi altra cosa gli capitasse sotto tiro. Tutti gli urlavano contro, ma nessuno osava toccarlo, come se temessero che la sua pelle nera avrebbe sporcato loro le mani.

Era sempre stato un bambino sui generis: introverso, scontroso con gli estranei, sensibile in un modo tutto suo e con un gusto particolare per cose che chiunque altro avrebbe considerato strane o fuori luogo. Sembrava trovarsi a suo agio nel buio, una cosa piuttosto insolita per la sua età: più volte le era capitato di entrare in una stanza di notte e vederselo sbucare da dietro un angolo, pronto a farle venire un colpo. In quei momenti era costretta a sculacciarlo, pur conoscendo fin troppo bene da dove derivassero quelle stranezze.

D'altro canto, tutti in casa lo sopportavano senza troppe lamentele, compreso il burbero nonno Giovanni; nessuno aveva mai voglia di metterlo a letto, perché era quando chiudeva gli occhi che succedevano le cose più strane.

Chissà perché, in quella fresca mattina di fine estate, le tornarono alla mente tutte le stranezze di suo figlio. Ricordò di quella notte, quando aveva poco più di tre anni, in cui nonna Rosa lo trovò che girava sonnambulo per la casa, nudo come un verme nonostante fosse pieno inverno, urlando a squarciagola una strana frase: ti katàkeimai! Ti katàkeimai! 

Maria aveva dovuto recuperare il dizionario impolverato che non usava dai tempi del liceo, per scoprire che quelle parole erano in greco antico e significavano pressappoco "perché sto dormendo?".

La povera nonna era rimasta sconvolta: come faceva un bambino così piccolo, che aveva difficoltà anche solo a esprimersi in italiano, a conoscere una lingua morta da migliaia di anni? E soprattutto, cosa sconvolgeva in quel modo i sogni del nipote? Maria sembrava fiera delle strane capacità del figlio, e visti i suoi trascorsi la cosa non fece che insospettire nonna Rosa ancor di più.

Un anno dopo le urla in greco, in una mattina nevosa in cui erano stati costretti a rimanere vicino al camino, Maria lo aveva sorpreso a squadrare con attenzione la prima pagina del giornale che il nonno stava leggendo. Lì per lì aveva pensato che stesse soltanto guardando le immagini, ma con uno sguardo più attento si era accorta che gli occhi del figlio scorrevano tra le righe di un articolo.

‹‹Amore della mamma, chi ti ha insegnato a leggere?›› aveva domandato con voce affettata, inginocchiandosi accanto a lui.

‹‹Sono stati i folletti.››

Aveva risposto con fare svogliato, senza distogliere gli occhi dal giornale. All'udire quelle fandonie, nonno Giovanni mormorò una parolaccia che suo nipote non avrebbe mai dovuto conoscere; Maria fece finta di niente, e continuò a fissare con attenzione il figlio, che leggeva un articolo di politica economica come se fosse la cosa più normale al mondo.

‹‹Questi folletti vengono a trovarti spesso?››

A questa domanda Michele s'era voltato verso di lei, e il suo tono era parso quasi compiaciuto.

‹‹Certo mamma, sono i miei migliori amici!››

Nel dirlo, si era passato una mano sull'avambraccio, un gesto inconscio che non sarebbe mai passato inosservato a sua madre. Gli occhi di Maria s'erano stretti per la preoccupazione, quando sulla pelle d'ebano del figlio aveva scorto delle sottili escoriazioni, graffi che sembravano fatti da qualche animale selvatico. Sapeva che il gatto dei vicini si intrufolava spesso sotto la recinzione del pollaio, ma ciò che aveva detto Michele l'aveva resa piuttosto guardinga.

‹‹Questi te li hanno fatti i tuoi amici?››

Il bambino aveva annuito, tornando a concentrarsi sul giornale del nonno. Per lei non fu una grande sorpresa, ma da quel momento s'era ripromessa di controllare con più attenzione quel che succedeva a suo figlio quando dormiva.

Fu sorpresa nel ritrovarsi a indugiare nei ricordi. Negli ultimi tempi, sentiva risvegliarsi in lei quell'angoscia che l'amore della sua vita le aveva predetto anni prima; certi pensieri la aiutavano a dissipare le ombre sul suo futuro, o forse, pensò, erano proprio quelli a generarle.

Quel giorno Michele avrebbe iniziato la scuola. Con i soldi che le arrivavano dagli amici di Theodor avrebbe potuto stipendiare senza problemi un precettore privato, eppure riteneva che la scuola pubblica fosse una scelta migliore, se non altro per permettere a suo figlio di farsi qualche amico nel mondo reale. Nutriva seri dubbi a riguardo, conoscendo fin troppo bene il caratterino di Michele e le dicerie che i suoi compagni di classe dovevano aver sentito dai genitori; ma in fondo, s'era detta, i bambini possiedono l'innata capacità di non prendere troppo sul serio le cose della vita, un dono che crescendo tendono a dimenticare.

Per Michele il momento di crescere sarebbe giunto molto presto, ma almeno sperava che i suoi coetanei rimanessero bambini il più a lungo possibile.

Pur tra mille perplessità, andò a svegliarlo, lo aiutò a vestirsi con i suoi abiti migliori e lo accompagnò giù in piazza, ad attendere il pullman che lo avrebbe portato alla scuola elementare del paese vicino.

Il vecchio autobus giallo era già lì, circondato dai pochi bambini di Lagopece con le famiglie al seguito. Incurante delle occhiate e dei bisbigli che accompagnarono il loro arrivo, Maria si inginocchiò dinanzi al figlio, controllò che avesse ancora tutti i bottoni della camicetta al loro posto e provò con scarsa convinzione a rassettare i suoi ricci informi.

Stava già per salutarlo tra mille baci, quando notò il suo sguardo.

‹‹Tesoro, cosa c'è che non va?››

Michele non rispose subito, ma lanciò un'occhiata perplessa al pullman della scuola.

‹‹M-mamma, io... Non sono sicuro che la scuola mi piacerà tanto!››

Maria rise così forte che tutti i presenti si voltarono.

"Questa piccola peste ha già capito tutto della vita" pensò, dimenticando per un istante la malinconia che si portava in cuore in quel periodo.

Figlio di un SognoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora