II.3) Un brutto sogno III

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Quando riaprì gli occhi, Michele si rese conto che il paesaggio intorno a lui era cambiato.

L'aria s'era fatta spessa, rarefatta, e una coltre di nebbia avvolgeva ogni cosa. La foresta stessa sembrava diversa, più giovane, con le grandi querce che avevano ceduto il posto a piccoli arbusti.

Anche l'albero ai cui piedi s'era addormentato pareva ringiovanito: ora sembrava in tutto e per tutto un comunissimo pesco, con il tronco liscio e sottile e i frutti profumati che pendevano dai rami. L'orologio del mondo, in quel luogo, pareva aver rallentato i suoi rintocchi.

Poteva sentire tutto ciò che succedeva intorno a lui: il respiro lento e regolare degli alberi, il fluire della linfa al loro interno, lo stillare della rugiada dalle foglie. Perfino il battito del suo cuore gli sembrava più lento.

Quando fu trascorsa quella che gli parve un'eternità, tentò di alzarsi, ma scoprì che qualcosa lo tratteneva. Intorno al suo corpo, sulle braccia, tra le gambe e fin sopra i capelli si erano formati rami e radici, che intrecciandosi tra di loro lo ancoravano al suolo e gli fornivano energia e nutrimento.

Era diventato anche lui una pianta, un giovane abitante della foresta in quella realtà fuori dal tempo e dallo spazio. Si sentiva terrorizzato, ma non aveva alcun modo di cambiare ciò che era diventato; provò ad urlare con quanto fiato aveva, ma ne uscì solo un lamento strozzato, che andò morendo nel fruscio del vento e tra le fronde degli alberi.

Ci mise un po' prima di accorgersi che qualcuno lo stava fissando.

La bimba-gatta era di nuovo davanti a lui. Il sorriso che gli aveva mostrato mentre lo spiava dai cespugli aveva ceduto il posto a un'espressione tetra. A parte questo, però, sembrava non aver subito particolari cambiamenti: aveva ancora quel volto dai lineamenti felini, la pelle abbronzata e il bel vestitino tutto pizzo e merletti. Continuò a fissarlo in silenzio, forse per ore intere, con quegli enigmatici occhi arancioni.

Quando infine parlò, le parole risuonarono nell'aria senza che lei schiudesse le labbra.

‹‹Infine sei giunto, o Miracolo.››

La sua voce era infantile, argentina e allo stesso tempo greve, come quella di una Musa o di una ninfa dei boschi.

‹‹Per anni ho atteso la tua venuta, ben più a lungo del tempo della vita dei mortali... Ma posso rallegrarmi, ora che il seme di Azrāʿīl ha messo radici nel mondo!››

Michele la fissò terrorizzato, senza nemmeno provare a capire il senso di quelle parole. Provò a urlare, a domandarle chi fosse, ma la sua voce non voleva saperne di collaborare. 

La strana bambina rimase impassibile, lo sguardo perso nei suoi occhi; quando infine si mosse di nuovo, allungando un braccio verso di lui, Michele vide che sul palmo della mano teneva una fiammella tremolante.

‹‹Non temere, o Miracolo: se il seme è forte, pianterà le sue radici nelle viscere della terra stessa. Tu sei nato in questo luogo, e nulla che v'appartenga potrà mai ferirti; gioisci con me, perché stanotte il Re dei Dannati riabbraccerà la sua sposa!››

Prima che potesse pensare a qualcosa, la bimba-gatta soffiò verso di lui, appiccando il fuoco alle radici che lo imprigionavano.

Michele cacciò un urlò disperato, e questa volta la sua voce suonò forte e chiara. La foresta ancestrale si trasformò ben presto in un inferno, e intorno a lui non vide altro che fuoco e distruzione; la bimba-gatta fu inghiottita dall'incendio, e fiamme alte come palazzi si levarono dal punto dove lei era scomparsa, dibattendosi e rombando minacciose.

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