VII.1) La prigione di fango I

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La vita, giù al villaggio, scorreva lenta come sempre.

Chiusa tra le mura della sua capanna, come ogni giorno, la ragazza ammirava i compaesani che s'affaccendavano nei loro compiti quotidiani.

C'era la moglie del lattaio che andava su e giù per le case del villaggio, col vaso pieno della bevanda raggrumata in bilico sulla testa. C'era il gruppo di cacciatori che veniva dal cuore della foresta, in fila ordinata verso il centro di raccolta. I monelli della strada li seguivano a ruota, esibendo fieri i loro bottini di caccia, quasi a voler emulare le gesta dei padri: topolini, lucertole, uova di pappagallo, e per qualcuno dei più intrepidi anche scimmiette stecchite. C'erano le figlie della tribù, sedute a filare in piccoli gruppi fuori dalle capanne; indicavano questo o quel giovane cacciatore con sorrisi maliziosi, ben attente a non mostrare la loro impertinenza alle madri appollaiate alle loro spalle, ma ai suoi occhi quei gesti non potevano sfuggire.

C'erano gli inservienti del culto, con il cranio rasato, che portavano le radici e le foglie sacre ai piedi del tempio dove lei risiedeva. Silenziosi e austeri, lasciavano le loro messi intorno al grosso calderone, e ancor più silenziosi si allontanavano. Il fuoco dinanzi al tempio era sempre acceso, giorno e notte, e il Gran Sacerdote Yshag, avvolto nella sua pelliccia di leopardo, cucinava senza sosta l'ayahuasca necessaria a farle compiere il suo infinito viaggio nell'universo.

Guardava sempre con curiosità tutte quelle piccole cose, nei rari momenti di svago che le erano concessi: le vite semplici e operose degli abitanti del villaggio la affascinavano, e al contempo provava invidia verso ognuno di loro.

Lei era una privilegiata, questo le avevano insegnato. Era nata con il dono degli Dei, l'Occhio che Vede Ogni Cosa, e l'intera tribù si manteneva in vita al solo scopo di aiutarla a svolgere il suo eterno compito. Ahk'Ashëla, la Voce dell'Universo, era così che la chiamavano.

In quei giorni, però, si sentiva ben lontana dall'essere una privilegiata. Troppi dubbi tormentavano i suoi sogni, e la Gatta aveva fiutato quei turbamenti. Condivideva troppe cose con quell'entità, e non l'aveva mai spaventata in quel modo... Cosa le passava per la testa? Cercò di scacciare quei pensieri, indegni per una del suo rango.

Ogni lusso che la foresta poteva offrire, in fin dei conti, le era riservato. Portava vesti bianche di pelle della vacca sacra, offerta in sacrificio quando lei aveva compiuto sette anni. Splendidi gioielli le adornavano il collo e i polsi, doni che per migliaia di anni erano stati tramandati alle vergini che avevano condiviso il suo dono. I suoi lunghi capelli neri non erano mai stati tagliati, e la donna più anziana del villaggio saliva al tempio ogni tre giorni, col solo scopo di acconciarglieli secondo le antiche usanze.

La sua dimora era stata costruita in modo che sovrastasse l'intero villaggio, e a nessuno era concesso di innalzare la propria casa oltre quel livello: dall'alto di quella prigione di fango, la sua vista spaziava sull'intero villaggio, simbolo concreto della sua superiorità.

Il serpentello d'oro che portava al polso tintinnò allegro, molto più allegro di lei, quando portò la mano a massaggiarsi le tempie; le ultime uscite notturne l'avevano spossata, ma per fortuna, ricordò, a breve avrebbe avuto modo di riposare. Ormai mancava poco al solstizio d'estate, il giorno in cui ogni attività del villaggio veniva interrotta per festeggiare la ricorrenza del suo compleanno: per tutte le ore di luce si compivano sacrifici in suo onore, e le donne vestite a festa danzavano al ritmo dei tamburi. Quello era per lei il giorno più bello, l'unico in cui le era concesso di tralasciare i suoi doveri ed era libera di mescolarsi con gli abitanti del villaggio.

Durante il resto dell'anno, però, tutto ciò le era proibito: non poteva lasciare la capanna, né vedere alcuna persona che non fossero le sue ancelle e il Gran Sacerdote, il solo che poteva assisterla nei suoi viaggi astrali. Non le era concesso di conoscere un uomo, avere figli o partecipare alla vita del popolo. Non ricordava più il suo vero nome, e nemmeno sapeva chi fossero i suoi veri genitori, da cui era stata portata via quando era ancora in fasce: secondo le tradizioni della tribù, suo padre era l'Universo, e sua madre era la Vita stessa.

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