IV.1) L'elefante bianco I

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15 ANNI DOPO

Michele aprì gli occhi di scatto, o almeno così gli parve. Non era del tutto sicuro di essere sveglio.

Attorno a lui esplose un turbine di colori, luci e ombre che gli si muovevano dinanzi senza che lui potesse distinguere alcunché. La testa gli girava all'impazzata, e nel tentativo di tenerla ferma scoprì che le braccia erano diventate molto più leggere del solito.

Si portò le mani all'altezza degli occhi, e con grande stupore notò l'insolita inconsistenza delle proprie dita, quasi che la carne fosse evaporata lasciando una sostanza incorporea laddove prima c'erano pelle, ossa e muscoli.

"Ma che cazzo mi succede?" si ritrovò a pensare.

Mentre ancora si fissava i palmi inconsistenti delle mani, una sensazione buffa, che non provava da anni, fece capolino tra i suoi pensieri. Iniziò a sentirsi stretto dentro al suo corpo, come se qualcosa di vivo premesse dall'interno, supplicando per la libertà.

Quando quel senso di oppressione raggiunse il culmine, si alzò di scatto; sentì uno strattone all'altezza dell'ombelico, e capì subito che qualcosa era andato storto. Invece di ritrovarsi in piedi, aveva iniziato a librarsi sul pavimento, galleggiando verso il soffitto come dentro una bolla d'acqua.

Questa volta portò le mani all'addome, lì dove aveva provato quella strana sensazione, e trattenne un grido quando tra le pieghe della maglietta sentì spuntare qualcosa di sottile e caldo. 

Dall'ombelico gli spuntava un esile filo d'oro che lo teneva ancorato al suolo, fissato a quello che sembrava... Michele sbatté le palpebre più volte, come per accertarsi che quella non fosse una visione.

Sotto i suoi piedi, stravaccato sulla poltrona, c'era il suo corpo addormentato. I capelli gli ricadevano sul naso, le guance erano premute tra le braccia intrecciate sul tavolo della scrivania, e quel filo d'oro, passandogli sotto l'ascella, saliva e si ricongiungeva con il Michele incorporeo che fluttuava a mezz'aria.

Rimase imbambolato per alcuni istanti, chiedendosi cosa gli stesse accadendo. O gli si era fritto il cervello, o stava solo sognando; eppure, non ricordava di aver mai fatto un sogno vivido e reale come quello. C'era qualcosa nascosto in un angolo della sua mente, ma tutto era avvolto in una nebbia oscura, un'immagine sbiadita nel labirinto dei suoi ricordi.

Si voltò con estrema lentezza, temendo che un movimento brusco avrebbe potuto interrompere la magia, e distolse lo sguardo dal sé stesso addormentato.

"Chissà se posso andare più in alto" pensò, e come se la fisica rispondesse al suo desiderio si sentì sollevare da un vento invisibile. Il filo che lo legava al suo corpo si dissolse in un pulviscolo dorato, obbedendo alla sua curiosità; con rapide bracciate si spinse verso il soffitto, passò attraverso travi e mattoni come fossero fatti di fumo, finché non sentì sul viso l'aria gelida della notte.

Il trovarsi all'aperto parve risvegliare in lui sensazioni del tutto nuove. Si sgranchì le gambe e continuò a librarsi verso l'alto, lontano dalle luci della strada; puntò ad Est, verso il centro storico della città, e ben presto si ritrovò a contemplare la notte su Roma da un'altezza mozzafiato.

Ormai era certo di trovarsi in un sogno, ma rimase a bocca aperta per il realismo di quelle sensazioni: la testa che gli girava per l'altezza, il vento che gli graffiava la faccia, il freddo che si era fatto man mano più intenso. Perfino le sagome scure dei monumenti ai suoi piedi erano perfette fino al minimo dettaglio: aveva riconosciuto l'imponente mole dell'Altare della Patria, e più in fondo lungo la Via Trionfale si ritrovò a sorvolare il Colosseo, coi suoi archi mangiati dal tempo e i profondi cunicoli dell'ipogeo, del tutto identici a come li ricordava.

Muovendo le braccia come un uccello spettrale, Michele continuò a volare dritto, trasportato dal vento a velocità sempre maggiore, senza sapere cosa o perché lo stesse trascinando in quella direzione.

Continuò così per qualche minuto, facendosi cullare dalle sensazioni provocategli dal volo, mentre il paesaggio sotto i suoi piedi si trasformava ancora: i palazzi e le strade della Città Eterna cedettero il posto a dolci colline, le cui forme arrotondate si stendevano a perdita d'occhio nell'oscurità.

Si guardò intorno curioso, finché non notò qualcosa baluginare sulla linea dell'orizzonte: da principio non vi aveva fatto caso, ma ora poteva distinguere un bagliore bluastro, una sorta di faro in quel mare verde scuro, proprio nella direzione verso cui stava puntando.

Sentì i battiti del suo cuore accelerare, tuttavia non provò né panico né ansia. Da quando aveva visto sparire il filo d'oro che lo legava al suo corpo addormentato, lo aveva pervaso la sensazione di essere forte, di non avere nulla da temere nell'esplorare quel sogno, come se il legame con il suo corpo non fosse che un fastidioso impedimento. Chiuse gli occhi e si calò verso quella luce misteriosa, l'aria ghiacciata della notte che gli sferzava la faccia nel turbine della decelerazione.

Planò a spirale su una radura incavata tra le colline, e il contatto con l'erba rugiadosa del mattino gli fece bagnare mani e piedi. Quel bagliore bluastro, la fonte di luce che aveva visto da lontano, pulsava alla sua destra; capì in quel momento che, fin dall'inizio, era quella la meta del suo sogno.
Fece per girarsi, ma per la sorpresa rovinò al suolo, come colpito da un fulmine.

Dinanzi a lui, più immenso e solenne di qualsiasi suo simile in natura, c'era un mastodontico elefante bianco.

La pelle diafana era percorsa da rughe e crepe secolari, che brillavano come fossero incastonate di diamanti; ogni centimetro di quel cuoio grinzoso era coperto da disegni e simboli che lui non riusciva a decifrare. Le quattro zampe, simili a querce conficcate nel terreno, sorreggevano l'immenso ventre tondeggiante. Le zanne sembravano fatte d'oro, e in mezzo ad esse, viva e muscolosa come un pitone albino, nasceva una proboscide che si dipanava nell'aria per più di dieci metri, con le enormi narici, dentro le quali si sarebbe potuto accovacciare, che fiutavano nella sua direzione.

Se non lo avesse sentito respirare, se non avesse notato l'aurea bluastra e pulsante che sembrava sprigionarsi dalla sua pelle, il ragazzo avrebbe pensato di trovarsi di fronte ad una colossale statua di marmo.

Indietreggiò, terrorizzato, e fece per guardare l'animale in quegli occhi di cobalto.

Un secondo dopo tutto era sparito, e lui cadeva in un abisso nero. L'unica cosa che riusciva a vedere era una macchia di luce confusa, un puntino che si allargava man mano che lui precipitava verso il fondo, della stessa tonalità di blu che aveva visto negli occhi dell'elefante.

Sentì un urlo squarciargli la gola, poi il nulla.

Figlio di un SognoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora