IV.2) L'elefante bianco II

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Per tutto il resto della sua vita, Michele avrebbe ricordato quella notte come quella in cui era quasi morto, affogato nel suo vomito come John Bonham.

Si rese conto di essersi addormentato sulla sedia, le braccia spalmate sopra la scrivania. I suoi occhi misero pian piano a fuoco il solito ciarpame: il computer lasciato acceso dal giorno prima, lattine vuote di birra sottomarca, un posacenere colmo di mozziconi e un mucchio di carte impolverate in un angolo, che forse erano gli appunti dell'università.

Tutto, compresi i vestiti che indossava, era coperto di vomito raggrumato, e se nello stomaco avesse avuto qualcos'altro da rimettere l'avrebbe fatto, al solo sentire l'odore che gli arrivava alle narici.

Cercò di alzarsi, ma la testa gli iniziò a girare come non mai e si dovette subito risedere. Come si era ridotto in quello stato? Provò a ricostruire i ricordi sulla sera precedente, immagini confuse che apparivano tra momenti di buio totale.

Sapeva di essere stato alla festa di De Angelis, un ragazzo del suo corso di cui non rammentava mai il nome, che aveva deciso di dare il giusto addio all'appartamento dal quale stava traslocando.

La situazione era sfuggita di mano quando tra gli imbucati era spuntato un dj: ragazze che ballavano sui tavoli, bicchieri lanciati dalle finestre, bottiglie d'alcool che passavano di mano sulla sua testa; e quell'odore malefico che aleggiava su tutto, per via della gran cappa di fumo che s'era creata quando, per via della pioggia, la gente aveva smesso di andare a fumare in terrazza.

Le camere da letto erano state prese d'assalto dalle coppie più spregiudicate, e qualcuno s'era appartato persino in bagno, tanto che per pisciare era stato costretto ad affacciarsi dal balcone... Riflettendoci, forse era proprio colpa sua se i vicini avevano chiamato la polizia.

L'ultima immagine che aveva, infatti, era una corsa disperata sotto il diluvio, quando qualcuno aveva visto le volanti lampeggiare in fondo alla strada e c'erano stati cinque minuti di panico generale. Era stata quella fuga infradiciata a fargli risalire la sbronza, ne era certo: in condizioni normali, lui reggeva l'alcol come pochi!

Riaprì gli occhi con uno sforzo che gli parve inumano. Quale che fosse la realtà delle cose, si era svegliato in uno stato pietoso: era coperto di vomito, con un mal di testa che gli faceva venir voglia di ammazzarsi e la nausea che saliva solo a sentir l'odore della sua maglietta.

Desistendo dal chiedere ulteriori sforzi al suo cervello, si decise ad alzarsi e iniziare le lunghe pulizie che lo avrebbero impegnato per metà mattinata.

Fu solo dopo essersi buttato sotto la doccia, che un altro ricordo gli balenò in testa.

Un'immagine concreta, dettagliatissima seppur del tutto fuori contesto: un immenso elefante bianco, troneggiante su di lui in una vallata sospesa nel tempo, gli occhi color cobalto che fissavano nella sua direzione.

La sua schiena fu percorsa da un brivido. Perché aveva quel ricordo? Era improbabile che avesse visto una creatura del genere la sera prima; anzi, era del tutto impossibile che quell'elefante potesse anche solo esistere! Eppure l'immagine era lì, ben più vivida dei flash annebbiati che aveva sul resto della serata.

‹‹Ma cosa cazzo mi sono bevuto?›› imprecò tra sé e sé, mentre si strofinava i ricci pieni di schiuma.

Si ripromise di non alzare più il gomito in quel modo, un evento che si era ripetuto fin troppe volte nei tre anni dell'università. 

Lì a Roma, dove nessuno conosceva il suo passato, dove i suoi occhi azzurri e la sua pelle nera erano nient'altro che un accostamento affascinante, aveva scoperto un nuovo lato di sé stesso, qualcosa che gli anni a Lagopece non gli avevano mai mostrato. Quel ragazzino introverso e rissoso, additato da tutti come un untore di sventura, si era ritrovato di colpo popolare, desiderato dalle ragazze, e aveva deciso di godersi ogni istante di quella tardiva adolescenza, anche a costo di compromettere i suoi studi.

L'immagine che gli restituì lo specchio, tra i vapori dolciastri del bagno, aveva però gli addominali inflacciditi, un volto scavato e due occhiaie da far paura. Ormai non era più un ragazzino, stava iniziando a perdere colpi! Negli ultimi tempi non c'era festa universitaria che si perdesse, e quando scoppiava una rissa tra ubriachi lui era sempre in prima linea. Aveva un disperato bisogno di vivere, di lasciarsi alle spalle gli anni miserevoli trascorsi nella casa dei nonni, ma quel tornado da cui si era lasciato travolgere iniziava a restituirgli il conto. Se solo i suoi vecchi compagni di scuola giù al paese lo avessero visto allora...

Il citofono squillò mentre si stava ancora asciugando i capelli. Già, a proposito di compagni di scuola!

Vincenzo e Giacomo erano arrivati prima del previsto; non era da loro essere svegli prima di mezzogiorno, specie dopo la nottata appena trascorsa. Che fossero davvero lì per studiare, come avevano farneticato il giorno prima? In fondo, per quanto pazzi fino al midollo, quei due erano pur sempre dei gran secchioni.

L'idea non gli piaceva affatto. Il senso di nausea che lo accompagnava dal risveglio s'era affievolito, ma quell'enorme elefante bianco continuava a far capolino tra le pieghe dei pensieri, fissandolo con i suoi occhi di zaffiro. Aveva bisogno di rilassarsi, non certo di spremersi il cervello sugli esercizi di Matematica Finanziaria.

"Forse loro sapranno spiegarmi cos'è successo ieri" cercò di confortarsi, mentre, stringendosi alla bell'e meglio l'asciugamano intorno alla vita, si affrettava verso il portone in fondo al corridoio.

"Sempre che non siano messi peggio di me!".

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