Capitolo 10

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Attenzione: Nel seguente capitolo sono presenti riferimenti espliciti ai disturbi mentali, nello specifico al DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo), riferimenti ai disturbi alimentari e al suicidio. Questi contenuti potrebbero non essere adatti per alcuni di voi.

Dell'ospedale ricordo l'odore: polvere e disinfettante.
Ricordo la stanza di Federico: spoglia e triste. La madre in un angolo, silenziosa, con gli occhi persi nella sofferenza.
Ricordo il fastidioso pulsare delle macchine a cui era collegato. La flebo che provava a donargli quel nutrimento che lui da qualche mese assumeva a stento.
Ricordo il suo viso: spento e consumato. Come se il cocktail di pillole che aveva ingoiato per togliersi la vita, avesse eroso un po' della sua pelle, prima di essere eliminato dalla lavanda gastrica.
Ricordo che il letto vicino al suo era occupato da un signore anziano, addormentato, che borbottava sommessamente nel sonno.
Dell'ospedale ricordo lo sguardo di Fede velato dalle lacrime, la sua felicità nel vedermi al suo fianco, il suo tentativo di allungare le braccia verso di me senza riuscirci, il nostro abbraccio che ricuciva un'amicizia.

Era successo tutto un paio di mesi dopo la morte di mia mamma. Federico conobbe questo tipo, Giulio. Il tipico ragazzo carino, simpatico, sbruffone, amico di tutti, con una particolare avversione per le regole che faceva impazzire le ragazze e i ragazzi che gli andavano dietro.
La sua aula era poco distante dalla nostra, così Fede con il passare del tempo cominciò a trascorrere quasi ogni intervallo assieme a lui e al suo gruppo di amici. All'inizio io, Sara, Rebecca e Ludovico ci unimmo a loro, ma comprendemmo molto in fretta che non eravamo a nostro agio, che ci sentivamo esclusi. Decidemmo di allontanarci da quella combriccola, ma Federico parve non darci troppo peso.

La situazione prese una piega parecchio strana. I due iniziarono a vedersi anche all'esterno delle mura scolastiche e Fede ci tenne a farmelo sapere, sembrava entusiasta di quella sua nuova frequentazione. Probabilmente era stata proprio quest'ultima a dargli il permesso di parlarmene, anche perché a tutti dicevano di essere solo amici, dato che Giulio voleva così.
Nonostante fossi felice per Federico, non riuscivo ad allontanare l'idea che Giulio non la raccontasse giusta, che fosse ben diverso da come paventava di essere. Provai più volte a dirlo a Fede, ma alla lunga l'unica cosa che ottenni fu una sua risposta piccata, carica di fastidio. Di punto in bianco prese a rivolgermi a stento la parola, e alle mie richieste di spiegazioni, rispondeva che non c'era nulla che non andasse. Dopo qualche settimana mollai la presa, e a lui la cosa sembrò non interessare. Eravamo entrambi troppo concentrati sui nostri problemi: il mio si chiamava Disturbo Ossessivo Compulsivo, il suo Giulio.

Il distacco da Federico fu brusco e innaturale, così come la valanga di pensieri che presero a tormentami.
I rituali che mi autocostringevo a compiere erano così tanti, che mi svegliavo ogni giorno due ore prima di andare a scuola per poterli svolgere tutti alla perfezione. E una volta arrivato in classe, già stanco prima ancora di iniziare le lezioni, altre fissazioni erano lì ad attendermi. Alcune diventate ormai un'abitudine, altre una spiacevole novità.
Volevo colmare quella mancanza, volevo di nuovo Fede nella mia vita. E pensavo che attuando quelle compulsioni, quei gesti assurdi, tutto sarebbe tornato come prima.
Durante la pausa estiva rimanemmo separati. Limitai molto le mie uscite con gli altri della compagnia, perché si finiva quasi sempre a parlare di ciò che stava succedendo e di quanto fosse incomprensibile.
Un mese dopo il nostro rientro in classe, Federico cominciò ad accumulare assenze su assenze, tanto che iniziai a pensare che di lì a poco non si sarebbe più presentato. Non che quando fosse in classe avessimo chissà quale interazione. Non parlavamo, ci limitavamo a lanciarci qualche occhiata di sfuggita, giusto il tempo per me di notare quanto, giorno dopo giorno, il suo viso si stesse incupendo, diventando sempre più scavato e pallido e scorgendo nei suoi occhi un'aridità sconosciuta, che mi stringeva il cuore, lasciando sulla sua superficie le crepe di un terreno bisognoso d'acqua.
Era come avere vicino un compagno di banco fantasma, uno scheletro del mio migliore amico.
Poi la notizia: Federico aveva tentato di suicidarsi.
Queste parole rimbalzarono tra le mura dell'istituto, nei bagni, nelle aule, fino a cogliermi totalmente impreparato. Infatti dovetti rifletterci una decina di minuti prima di metabolizzare l'accaduto, firmare una giustificazione e fiondarmi in ospedale.

"Michè... scusa" mormorò con la voce rotta, una voce che non sembrava nemmeno la sua.
"Non importa" gli risposi io sorridendo e provando a ricacciare indietro le lacrime.
"Sto messo male... vero?"
"Non più del solito."
Tossicchiò una risata rauca strizzando gli occhi e muovendo appena la testa.
"Sono stato... uno... stronzo."
Faceva fatica a parlare, soffriva, probabilmente aveva la gola in fiamme, il corpo a pezzi.
"Ti ho detto che non importa, non sforzarti. Prova a dormire un po', riposati."
"Tu... rimani... qui?"
"A costo di farmi cacciare."
Fede abbozzò un sorriso e pian piano si appisolò.

La sua ripresa fu lenta, non tanto dal punto di vista fisico, quanto da quello psicologico.
Sua madre, essendo sola e divorata dalla preoccupazione, cercava di essere presente il più possibile, nonostante il lavoro e suoi innumerevoli impegni. E mi fu molto grata quando acconsentii a trascorrere un paio di settimane a casa sua vicino a suo figlio, facendolo svagare, parlando con lui, portandogli da scuola i compiti da fare, facendogli compagnia. Le settimane divennero tre, poi quattro, alla fine rimasi lì per più di un mese.
Le prime notti furono le peggiori. Piangeva in silenzio fino ad addormentarsi, si assentava fissando il vuoto oppure non dormiva affatto.
Poi prese a comportarsi come prima di tutto quello che gli era accaduto, facendo finta che non gli fosse successo nulla. Rideva alle battute di Sara e Rebecca durante le nostre serate di gruppo, scherzava con me senza problemi su qualsiasi argomento, si sforzava di stare bene senza però riuscirci veramente.
Ritornò a scuola con fatica. Evitò ogni possibile contatto con Giulio, cosa che si rivelò più facile del previsto, visto che il soggetto in questione sembrava essersi volatilizzato disinteressandosi completamente di lui. Sopportò il bisbigliare continuo dei nostri compagni di classe e le domande inopportune dei professori. Ma soprattutto tentò di gestire la valanga di occhiate invadenti che spuntavano fuori da ogni angolo della scuola, incuranti di tutte le parole che muovevo contro di loro in difesa del mio migliore amico. Ben presto però la situazione si tranquillizzò e il malsano interesse verso quella macabra novità svanì così com'era arrivato. C'era bisogno di nuove notizie da commentare e di nuovi scandali su cui spettegolare.
Infine una sera, poco dopo una nostra cena solitaria, senza preavviso, Federico prese un respiro profondo e mi raccontò tutto. E più si avvicinava alla fine di quella brutta storia, più l'angoscia che gli opprimeva il petto sembrava allontanarsi da lui come una nuvola di fumo nero. I suoi occhi riacquistavano un po' di luce e i suoi nervi di distendevano. Si stava disintossicando da un veleno, da qualcosa che aveva invaso il suo corpo prosciugando la sua linfa vitale, stava eliminando una sostanza nociva, si stava liberando di Giulio.

 Si stava disintossicando da un veleno, da qualcosa che aveva invaso il suo corpo prosciugando la sua linfa vitale, stava eliminando una sostanza nociva, si stava liberando di Giulio

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