Capitolo 21

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Attenzione: Nel seguente capitolo sono presenti riferimenti espliciti ai disturbi mentali e nello specifico al DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo) che potrebbero non essere adatti per alcuni di voi.

"Prepara di nuovo lo zaino o tuo padre muore."

"Non partire o tuo padre muore."

"Scendi dall'aereo per ultimo o tuo padre muore.

"Premi tutti i pulsanti dell'ascensore o tuo padre muore."

È un martello pneumatico nelle sinapsi. È invadente, incessante e schifosamente famigliare: il retro del collo che brucia, la gola secca, il cervello che non la smette di elaborare pensieri, ossessioni, compulsioni, prendendosi gioco della razionalità della situazione. E più resisto, più mi colpisce, e più mi colpisce e meno resisto.
Alterno momenti di lucidità e instanti di smarrimento. Se Leo non fosse stato con me non so se sarei riuscito ad arrivare in ospedale, è da ieri sera che mi muovo barcollando tra istinto e inerzia.

Elisa parla, spiega la situazione, ripete alcuni dettagli che mi aveva già comunicato negli innumerevoli messaggi che ci siamo scritti nelle ultime ore. Provo a stare attento a ciò che dice, ma i pensieri intrusivi calciano via le sue parole per sostituirle con le loro.
"È ancora in terapia intensiva, quindi non possiamo fare altro che aspettare" conclude.
Abbasso la testa, mia sorella e Leonardo mi stanno guardando, sento i loro occhi su di me, attendono un mio gesto, un cenno, una risposta.
"Ok" bofonchio a fatica.

Ci incamminiamo in direzione di un gruppo di sedie poco lontano, un tizio ne sta occupando una e ci sta osservando. Si alza muovendo qualche passo verso di noi. È alto, dinoccolato, ha i capelli ricci e il viso simpatico.
"Questo è Vittorio... il mio ragazzo."
"Piacere" dice lui stringendoci la mano e aggiustando poco dopo con un gesto abitudinario gli occhiali sul naso pronunciato.
Elisa mi aveva detto che si stava frequentando con qualcuno, ma difficilmente io e lei ci scambiamo foto personali magari intavolando discorsi incredibilmente filosofici sulla vita, non siamo quel tipo di fratelli. Siamo più tipi da meme e battute, di solito preferiamo comunicare così. Ogni volta che la chat di famiglia si riempie di un ping pong di immagini ridicole, barzellette sarcastiche e insulti affettuosi, tocca a mio padre intervenire, con minacce nemmeno troppo velate. Anche se tutti e tre sappiamo quanto quei messaggi scemi facciano ridere anche lui... Papà...
Non voglio perderlo.
Non sono pronto.

"Vattene dall'ospedale o tuo padre muore."

"Mi dispiace, avrei preferito conoscervi in un'altra circostanza."
Il tono di Vittorio è fermo, sincero.
Annuisco accennando un sorriso stiracchiato mentre tutti noi prendiamo posto nel corridoio, in attesa.

Il silenzio inquietante che riempie quei muri cerca di contenere tutte le angosce che ci stanno opprimendo. Vorrei urlare a squarciagola, coprire anche solo per un istante il battere incessante della valanga di pensieri che mi scalpitano nelle meningi. Mi piacerebbe confortare Elisa che continua a sbuffare irrequieta, con la gamba che traballa e gli occhi fissi sul grosso orologio da muro di fronte a noi. Ma non ho le forze di farlo. Le poche ore di sonno, l'agitazione e la lotta contro me stesso mi hanno abbattuto, e la mia testa continua a infierire su ciò che rimane, senza tregua. L'attesa cresce così come la sensazione di sconforto che minuto dopo minuto ci sta logorando. Vittorio tiene la mano di Elisa guardandola di tanto in tanto con apprensione. Leonardo mi porge uno dei bicchieri di tè caldo che ha preso per il nostro gruppetto dal distributore automatico. Incrocio il suo sguardo per qualche secondo, quel tanto che basta per ringraziarlo.

"Non bere il tè o tuo padre muore."

Sento la sua mano poggiarsi sulla schiena e accarezzarla delicatamente. Sospiro e assaggio un sorso dal bicchiere che ho tra le mani. Devo resistere, posso farcela... ma per quanto?
Poggio la testa sulla sua spalla e chiudo gli occhi mentre le sue labbra mi sfiorano i capelli.

Mi rinfresco il viso con un po' di acqua gelata e fisso il mio riflesso nello specchio scheggiato del bagno dell'ospedale. Sono pallido, ho gli occhi arrossati e un'espressione assente. Il tempo si sta trascinando con una fatica disarmante. Lento come le gocce che cadono nel lavandino dal rubinetto appena chiuso. Abbiamo provato a chiedere informazioni, ricevendo sempre la stessa risposta: dobbiamo aspettare, aspettare e sperare.
La testa continua a brontolare pensieri ormai quasi del tutto sconnessi. Sono così tanti che non riesco nemmeno più a comprenderli con esattezza e questo è solo un bene. Sono troppo spossato per provare a trovargli un posto nell'archivio del mio cervello, anche perché quel posto, per loro, non c'è. Ho bisogno di dormire, ma al tempo stesso vorrei rimanere in questo stato di dormiveglia cosciente in modo da non dover dare troppe attenzioni al nugolo ingarbugliato che è la mia scatola cranica, e soprattutto in modo da essere abbastanza vigile qualora ci fossero novità su mio padre.

Leonardo cammina nervoso avanti e indietro sul balconcino oltre la porta finestra in fondo al corridoio, sta parlando al telefono, i suoi occhi si fermano tristi nei miei, posso immaginare chi ci sia dall'altra parte della cornetta. Chiude infastidito la chiamata e sbuffando si appoggia con gli avambracci alla ringhiera del balcone. Lo raggiungo in silenzio fermandomi al suo fianco. Con l'indice gli accarezzo il dorso della mano, lui accoglie la mia stringendola con gentilezza.
"Era mia madre. Purtroppo devo tornare a casa."
"Va bene, tranquillo..."
"Ho provato a spiegarle la situazione, ma non ha voluto sentire ragioni."
La sua voce è affranta e infastidita.
"È tutto ok, non..."
"Ma io voglio stare qui con te! Voglio starti vicino! Sono stufo del suo comportamento, mi tratta come un bambino e..."
Si blocca, mi guarda dispiaciuto con gli occhi spalancati, come se avesse fatto qualcosa di imperdonabile e poi mormora: "Scusami... Noi siamo qui in pensiero per tuo padre e io me ne esco con queste cazzate. Forse ha ragione mia madre, sono un bambino... e anche un coglio..."
"Smettila."
Lui continua a sostenere il mio sguardo con rammarico.
"Il mondo non si ferma perché io ho un problema. Tutti li hanno, ma la vita prosegue lo stesso. Io rimarrò preoccupato per papà a prescindere che tu mi parli dei tuoi casini oppure no. Sai che se hai bisogno di qualcuno che ti ascolti, io ci sono. Quindi piantala di chiedere scusa, perché non hai fatto nulla di male."
Leonardo mi abbraccia con forza, le nostre guance si sfiorano per poi appoggiarsi uno sulla spalla dell'altro.
"Anche se non sei qui, io ti sento vicino perché so che mi pensi."
"Come tu pensi a me."
"Quanto siamo sdolcinati..."
"Stavolta hai iniziato tu."
"In effetti..."
"Ti amo."
"Ti amo."

La pioggia inizia a cadere timidamente mentre saluto Leo dalla banchina degli autobus in partenza. Mi ha detto che tornerà il prima possibile e so che lo farà.
Mi sento uno straccio. Trascino i miei pezzi oltre le porte d'entrata dell'ospedale provando a tenerli insieme. Raggiungo nuovamente il piano dove è ricoverato mio padre. Elisa si è appisolata sulla sedia, stremata. Vittorio è andato al lavoro, anche lui tornerà presto.
Il corridoio è deserto, se non fosse per i costanti rumori indistinti e ovattati che giungono un po' dappertutto, sembrerebbe che quest'ala dell' edificio sia stata abbandonata.
Non riceviamo notizie da ore.
Ore che iniziano a pesare come un macigno sullo stomaco.
Minuti che mi fanno pensare a un'eventuale vita senza papà.
Secondi che inesorabilmente accrescono in me il senso di colpa per non essergli stato vicino, per aver deciso di trasferirmi all'estero.
Mi siedo poco distante da mia sorella, la testa tra le mani.
Forse dovrei restare qui con la mia famiglia, rinunciare alla mia vita a Londra. Forse è stata una scelta infantile dettata soltanto dall'egoismo. Forse è arrivato il momento di crescere e di smetterla di vivere nel mondo delle favole.

"Resta in Italia o tuo padre muore."

"

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Mal di gioia - Parte 2Where stories live. Discover now