2. RESTERESTI ANCHE DOMANI?

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Emily POV

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Emily POV

6 agosto 1977

I primi mesi con i White erano stati infernali. Tentavano (o meglio, Eliza White, la donna col caschetto biondo e il rossetto corallo tentava. Suo marito, Eric, non era mai a casa e quando c'era l'atmosfera si faceva ancora più pesante del solito. Li sentivo spesso litigare, parlavano quasi sempre di me) in tutti i modi di farmi parlare, mi mandavano da uno psicologo, mi avevano pure iscritta a danza perché dicevano che poteva aiutarmi esprimermi in modi alternativi. Odiavo andarci. L'unico punto positivo era che nessuno mi parlava se non per insegnarmi le varie posizioni che imparavo perfettamente con una velocità impressionante.

Quel giorno ero tornata a casa con la signora White dopo danza e avevamo trovato il signor White seduto al tavolo della cucina con gli occhi iniettati di sangue e un bicchiere fra le mani.
-Emily tesoro vai in camera tua.- disse lei con un tremolio nella voce spingendomi verso le scale.
Sapevo che qualcosa non andava. Iniziai a sentirmi come quella sera quando mio padre impazzì.
Il cuore cominciava a pulsarmi sempre più veloce nelle orecchie e avevo i brividi. Sapevo perfettamente che di lì a poco sarebbe arrivato il panico. Restai seduta in cima alle scale aggrappandomi al corrimano.

-Cosa diavolo stai combinando Eric?-
Sentii una sedia strisciare contro il pavimento.
-Mi sembra abbastanza chiaro ciò che sto facendo.- biascicò lui.
Sentii Eliza che sospirava. Probabilmente si stava passando la mano sulla fronte. Lo faceva sempre quando cercava di trattenersi.
-Avevi detto che avresti smesso! E ora a maggior ragione dovresti smettere, non siamo più solo io e te!- sibilò.
Lui rise sguaiatamente.
-Io volevo un figlio con te! Ma un figlio normale, non una pazza che non dice una parola!- gridò lui.
-Abbassa la voce! Q-quella bambina ha bisogno d'aiuto e noi l'aiuteremo!- disse lei sbattendo il pugno sul piano della cucina.
Riuscivo a vederla nella mia mente, immaginavo fosse appoggiata al ripiano della cucina e che stesse stringendo il bordo del lavandino.
Setii il rumore di qualcosa che si infrangeva e immaginai che avesse lanciato il bicchiere contro il muro.
-Smettila Eric, devi calmarti!- strillò lei.
-Riporta quella pazza da dove l'abbiamo presa!- urlò.
Ci fu un attimo di silenzio e poi sentii 5 passi. Dal tavolo al lavandino la distanza era di 5 passi. Lui doveva essere andato verso di lei.
-Eric mi stai facendo male, lasciami!-
La sua voce tremava.
Poi, un rumore improvviso. Il rumore di 5 dita che si schiantano contro un viso. Seguito da un lamento da parte di Eliza.

In un attimo mi piombò tutto addosso. Era come se lo schiaffo l'avessi preso io.

Mio padre che torna a casa e ha uno sguardo strano. Mio padre che mi punta addosso una pistola. Mio padre che preme il grilletto. Io chiudo gli occhi ed aspetto il dolore ma non arriva. Li riapro e vedo mia madre in piedi davanti a me che mi guarda. Una chiazza di sangue si sta allargando sul suo petto e ben presto mia madre non è più in piedi davanti a me. È caduta a terra e un rivolo di sangue le esce dalla bocca. Vedo la vita andarsene da lei ed è un attimo. Un altro sparo. Alzo gli occhi e mio padre è a terra. Ma non è più mio padre. È un mostro che ha tentato di uccidermi e nel farlo ha ucciso mia madre. Non è più mio padre. Non ha nemmeno più la faccia. Si è sparato in testa. Il muro non è più verde chiaro. Il muro è rosso. 

Non riuscii più a tollerare quelle sensazioni. Il panico era arrivato. Corsi trafelata dalle scale e uscii in giardino alla ricerca di un posto in cui rifugiarmi. Notai che sotto il portico, all'angolo che confinava con il giardino dei vicini c'era posto per riuscire a nascondermi.
Chiusi gli occhi. Sentivo ancora gli spari, sentivo ancora le sirene della polizia che era arrivata ma era troppo tardi. Sentivo il suono che aveva fatto la mano di Eric che si era scontrata con la guancia di Eliza. Sentivo il mio cuore che impazzito batteva spaccandomi la cassa toracica.
Poi, all'improvviso sentii un rumore accanto a me e lo vidi. Era il figlio dei vicini. Quello che mi guardava dalla finestra il giorno in cui ero arrivata. Ora mi guardava spaventato.
-Vai via!- gridai prendendomi la testa fra le mani e chiudendo gli occhi.
-No non me ne vado.- disse gattonando verso il mio nascondiglio.
Il panico mi rendeva impossibile respirare e sapevo di stare diventando blu. Non volevo che qualcuno mi vedesse e cercai di spingerlo via...ma già da bambino era più forte di me.
Lo prendevo a pugni sulle spalle e sul petto perchè volevo che mi lasciasse sola e se ne andasse ma lui rimaneva lì, imperturbabile.
All'improvviso mise le sue mani sulle mie tempie mormorando qualcosa sottovoce. Immediatamente una sensazione di calore si propagò in tutto il mio corpo facendomi sentire di colpo rilassata.
-Cosa sei?- chiesi spaventata ritraendomi.
Lui fece spallucce.
-Uno stregone.-
Stregone. 8 lettere.

stregóne s. m. [der. di strega]. 1. a. Secondo la mitologia popolare, essere soprannaturale, immaginato con aspetto maschile, o uomo reale cui si attribuisce un'attività di magia nera.
b. In antropologia sociale, individuo cui si attribuisce una capacità malefica emanante dal suo corpo, della quale, quando ne diviene cosciente, si serve per scopi di potere e profitto; benché non sia sempre identificabile, è temuto e condannato come essere antisociale (contrariamente a un diffuso preconcetto, non ha alcuna caratteristica soprannaturale e non va confuso con gli operatori rituali la cui funzione è benefica e rispettata). In etnologia, è termine talora usato per sciamano. 2. Uomo al quale vengono attribuite facoltà straordinarie di cui si serve per svolgere un'attività di magia bianca; guaritore. 3. fig. In similitudini o come termine di confronto, uomo dotato di particolari capacità (acume, intuito e sim.), o di eccezionale abilità in un determinato campo.

Avrei potuto ridere e non credere alle sue parole o avrei potuto essere terrorizzata a allontanarmi da lui...non avevo mai sentito nessuno dire una cosa simile, non pensavo nemmeno che potesse esistere qualcosa di soprannaturale al mondo.
Comunque non feci nessuna delle due cose.
In quel momento mi sembrò che lui fosse la cosa più bella che fosse mai capitata nella mia vita. Lui era riuscito a farmi stare meglio, cosa che nessun altro era mai riuscito a fare. Era riuscito a farmi sentire a casa. Casa. Non l'edificio, la sensazione. Non mi importava che fosse uno stregone, per me avrebbe potuto essere chiunque e non mi sarebbe importato.
Feci spallucce anche io.
-Oh, okay.- mormorai.
Non parlammo più per un po'.
Quando mi fui calmata mi misi accanto a lui e appoggiai la testa sulla sua spalla.
-Non te ne sei andato prima.- mormorai con un filo di voce.
-Te l'ho detto che non me ne andavo.- rispose secco lui.
Restammo in silenzio per un pò, poi mi alzai per tornare in casa. Poi però mi voltai verso di lui che era ancora seduto a terra.
Tentennai un attimo prima di chiedergli ciò che frullava nella mia testa.
-Resteresti...resteresti anche domani?-
-Finchè vuoi Ems.-
Restai un attimo interdetta per il nomignolo che aveva usato ma quella frase era bastata per far allargare un sorriso sul mio volto e farmi trotterellare verso casa con il petto più leggero.

Avevo un amico.
Avevo la mia casa.

NEMESI - Le due metàWhere stories live. Discover now