Victor

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            La notte è volata via. Il caffè non mi va proprio, guardo il latte nel frigorifero, ma rimane lì dov'è. Un biscotto, scelto a caso nella credenza e che almeno ha la funzione di richiamarne un altro e quest'ultimo crea i presupposti, che prima non c'erano, per il caffè.

Alexa fa già il suo lavoro egregiamente, anche da qui, mura in mezzo al quasi niente, solo campagna, la tecnologia ci sa fare. Con la mia voce, la sintonizzo su una radio francese. Un vezzo, me ne rendo conto. Comprendo appena la lingua, ma in qualche modo mi fa sentire parte del mondo, un sfiorare l'evasione del quotidiano. Pensare di essere a Parigi, anche da qui. La Tour Eiffel, il Pantheon, Montmartre, e cos'altro? Ah, sì, la Senna proprio qui davanti a me. E che faccio oggi? Colazione sulla piazza che si affaccia davanti ad un corso trafficato, oppure scelgo un luogo più discreto vicino a Bercy? Ci sono stato decine di volte, eppure ci voglio tornare sempre. Facile sognare ad occhi aperti.

"Alexa, basta". La radio si spegne e cala un silenzio totale a cui sono abituato.

Appoggio la tazzina nel lavello, guardo fuori dalla finestra. C'è una luce bianca filtrata dalle nuvole e che acceca un po'. Oggi prenderò gli occhiali da sole, devo ricordarmelo, mi annoto mentalmente. Il selciato è asciutto. Volto lo sguardo a destra e vedo sul cancello un piccolo rapace in attesa. Non è la prima volta, anche quello fa parte del mio quotidiano. E mentre lo osservo, il rapace si alza mostrando la sua superiorità. Vola in alto, poi rimane lassù sospeso e leggero. Chissà, penso, come deve essere alzarsi in quel modo, guardare tutti dall'alto e poi, decidere su chi scendere in picchiata. A pensarci, non lo invidio, al contrario, non vorrei mai dover scegliere una preda per poter sopravvivere e credo che la natura in questo essere crudele per la sopravvivenza è materia su cui pensare giungendo alla conclusione che se proprio deve essere così, allora anche l'uomo in fondo non è null'altro che l'estensione della natura e che, se così fosse appunto, e vorrei che non lo fosse, non sarebbe da ghermire come spesso accade per le sue innumerevoli debolezze e, ma sono stanco, per le sue crudeltà.

Come sto?

Non è mai il momento giusto per rispondere a questa domanda e la lascio sospesa, così come lascio la cucina con questi pensieri poco edificanti, e abbandono quindi anche la vista dalla finestra.

Mi vesto dopo aver controllato allo specchio del bagno che la barba può rimanere lì dove si trova in quel momento anche se al passaggio della mia mano avrei dovuto pensare diversamente.

I miei capelli non sono ancora bianchi, le rughe segnano il mio viso e l'abbronzatura estiva è un lontano ricordo. Controllo che le spalle siano sempre al loro posto, contraggo i muscoli, imposto un sorriso per verificare di esserne capace all'occorrenza. Provo a dire qualcosa allo specchio, mi prometto di non farlo più, e vedo sfuggire un sorriso sincero questa volta. Così, soddisfatto, sono pronto.

Infilo le scarpe, le allaccio due volte, una questione pratica. Poi le guardo, non mi convincono, e decido di cambiarle. Oggi metterò dei mocassini demodé, andranno bene. Ritorno in camera, mi osservo nuovamente allo specchio e no, proprio no, questa barba così non va bene, ammetto. Furioso, ma con poca convinzione, mi svesto a metà e entro nel bagno. Prendo la schiuma ed il rasoio ed eseguo quanto avrei dovuto fare prima.

Alla fine, sono soddisfatto del risultato, l'umore inizia a migliorare. Penso ad un secondo caffè ed assecondo il desiderio ritornando in cucina e attendendo che la moka porti a termine il suo compito: è semplice darsi ragione quando si vive da soli.

Termino di bere il caffè, poso la tazzina nel lavello e quello è l'unico disordine che mi concedo. Il resto, invece, è dannatamente tutto in ordine. Comunque controllo e mi accerto che lo sia: nulla sul tavolo, pochi oggetti sulla mensola, le sedie allineate. La finestra chiusa e le tendine accostate e tese. Mi fermo ancora un momento. Rifletto se ho dimenticato qualcosa e concludo che sto soltanto perdendo tempo.

Prendo le chiavi sopra il mobile del salotto, controllo che il telefono sia attivo, infilo entrambi gli oggetti nella tasca del giubbotto color marzapane che già attende di essere indossato. Guardo nuovamente in giro e decido che così può andare bene.

Prima di uscire, controllo distrattamente la borsa con cui vado a scuola; sembra quella di un avvocato piuttosto che quella di un insegnante ed ho già pensato più volte di aggiornarmi in tema di borse, ma ho sempre rimandato. Anche la scorsa settimana davanti una vetrina di un negozio di Firenze che prometteva essere la mia prossima borsa. Come sempre non mi sono deciso, ma prima o poi ritorno in quel negozio e farò l'acquisto. Il tutto nei miei pensieri, e poco nelle azioni reali.

Poi mi viene un'idea. Svuoto la borsa delle poche cose che ho: un'agenda, che normalmente non uso, un astuccio, una calcolatrice, inutile visto che non insegno matematica, uno scontrino del bar, una matita che non dovrebbe stare nel fondo della borsa ma nell'astuccio.

Non dovrebbe esserci altro.

Non dovrebbe.

Appunto.

Ma c'è.

La mia bocca rimane aperta, di uno stupore livido.

Leggo il foglietto. Una grafia precisa, che riconosco.

"Victor, Ti amo. Giulia".

Il foglio mi cade dalle mani e volteggiando, beffardo, si infila sotto la credenza. E lì lo lascio.

Non sarò mai pronto, mi dico.

Sono come se fosse sempre inverno.

E lo so da me che non saprei neppure affrontarla, dirle le cose che vorrebbe sentire. Ed invece sarei capace di parlarle di altro, della casa dei miei davanti al mare, delle passeggiate nei boschi, delle promesse che mi sono fatto in quei luoghi, cose che la lascerebbero a bocca aperta, ma quando il discorso mi porterebbe a prometterle qualcosa, come sempre ho fatto, non le prometterei nulla.

Neppure un bacio.

Giulia.

Perdonami.

Un altro amoreWhere stories live. Discover now