36|Il tempo scorre

54 4 170
                                    

Non feci in tempo ad entrare nella mia classe che Kitsune mi venne contro, stritolandomi in un abbraccio.

«Che bello vederti!» gridò trattenendo le lacrime. Ma quelle parole volevano in realtà dire: "sono felice che tu sia viva".

L'avevo terrorizzata mandandole all'improvviso la posizione della dottoressa Hoover e il messaggio inviato dopo non l'aveva per niente tranquillizzata. Non avevo avuto modo di scriverle con tutto quello che mi era successo il giorno prima, ma le avrei raccontato tutto a tempo debito.
Forse all'intervallo no, Sebastian poteva essere in ascolto, era meglio dopo scuola.

In lontananza vidi il professore di storia avvicinarsi alla classe con passo tranquillo e un largo sorriso in volto.

"Menomale che è di buon umore, oggi" pensai ritornando in classe assieme a Kitsune.

Il professore prese posto sulla cattedra strisciando leggermente la sedia e iniziò ad armeggiare col computer per aprire il registro elettronico.
Con la connessione che avevamo, ci si metteva una vita.
Ma io mi chiedo, trecento euro di contributi "volontari" annuali per studente e non riuscivano ancora ad acquistare dei wi-fi abbastanza potenti? Chissà dove finivano tutti quei soldi.

Era uno dei più grandi misteri della mia scuola, per i Normali.
Per me i misteri erano: come hanno fatto ad assumere quella befana di una dottoressa Hoover? 

Ripensare a lei mi provocava una piccola fitta di dolore, in prossimità del cuore.
Sembrava simpatica e dolce, mi aveva trattata benissimo, avevamo gli stessi gusti e sembrava promettermi un futuro meraviglioso (per quanto potessi aspirare a un futuro), ma lo aveva fatto solo per avere qualcosa in cambio: i miei segreti.

Perché non potevo semplicemente trovare qualcuno che mi apprezzasse per la persona che ero normalmente? Perché tutti volevano sempre cercare di "vedere oltre" e impicciarsi in questioni che non li riguardavano?

«Rossi»

«Presente!» dissi, forse a voce troppo alta.

«Stamattina sei più sveglia, eh? Mi fa piacere» ridacchiò. Poi continuò a chiamare gli ultimi nomi.

Finito di fare l'appello, seguì un breve momento di silenzio dove nessuno sapeva cosa fare.
Io e Kit ci scambiammo uno sguardo pensieroso. Avremmo tanto voluto chiacchierare invece di restare lì ad ascoltare le lezioni, ma dovevamo aspettare.

L'attesa era snervante e non riuscii nemmeno a concentrarmi appieno sulla lezione nonostante il professore stesse parlando della vita quotidiana a Roma, cosa che mi interessava parecchio, specialmente perché l'estate prima avevo letto un libro interessante su Cicerone e volevo saperne di più su ciò che stava dietro i suoi gesti e le sue abitudini.

Il professore parlò di come venivano utilizzate le arene dove venivano fatti combattere i gladiatori. Uomo contro uomo o uomo contro bestia. Ma alla fine era sempre bestia contro bestia, perché chiunque combattesse lì doveva avere la forza di un leone e l'astuzia di una volpe per sopravvivere e non cadere insanguinato nella polvere.

Mi sentivo come un gladiatore: costretta a combattere contro degli avversari potenti e delle bestie immonde, mostri, demoni.
Tutto questo mentre il mondo guardava e scommetteva su chi potesse vincere.

Bene. Male.
Buoni. Malvagi.
Cos'erano se non mere etichette che affibbiavano alle due fazioni.
Noi non eravamo i "buoni", la Città Aurea non era un posto sicuro pieno di gente gentile e carina, brulicava di uomini corrotti, guerrieri acciecati dalla vendetta, guardiani che spingevano per raggiungere la vetta e uccidevano i loro stessi compagni, traditori, spie, nemici tra gli amici.
Ma ci piaceva essere chiamati "i buoni", perché in tutta quella corruzione c'erano sette vite meno corrotte da sacrificare.

I Temibili 10Where stories live. Discover now