42. Cosa è più importante?

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Tom

Nemmeno le fottute finestre aperte riuscivano a rendere quella scuola vivibile in estate. L'umidità era così opprimente che mi si incollava sulle spalle e appesantiva ogni movimento. Nuotavo in un lago di colla.

Volevo tornare a casa.

Volevo tornare da mia madre.

Volevo mettere più distanza possibile da quelle colline, dal mio passato, da Luca.

Il dolore che mi tormentava era logorante. Mi ero buttato nello studio, avevo accettato gli inviti di certi compagni per riuscire ad andare avanti. Figli di papà e primi della classe. Loro parlavano e parlavano, tronfi e pieni di sé come erano sempre stati, e quelle parole inutili riuscivano in qualche modo ad annebbiarmi il cervello. Come l'alcol che offrivano nelle loro feste private.

E poi c'era Mina...

Era doloroso persino guardarla, ma anche non cercarla con gli occhi mi costava un'enorme fatica. Una parte di me non riusciva a tollerare l'idea di staccarsi da lei, ma l'altra non vedeva l'ora di fuggire e abbandonare il passato. Quel dolore aveva macchiato lei e tutti i nostri ricordi insieme.

«Noto che i vostri compagni se la stanno prendendo comoda dopo l'intervallo», commentò con una punta di acidità la professoressa di storia.

Avevo già notato il banco vuoto di Mina, ma non quello dei Drughi, due file dietro di me.

«Ho visto la signorina Fiore che, in barba al suono della campanella, si stava dirigendo alle macchinette mentre noi tornavamo in classe», cinguettò Persefone. «Impossibile che non si sia accorta della fine dell'intervallo.»

La professoressa alzò gli occhi al cielo, inforcò meglio gli occhiali per sbirciare il registro. «Dawson, va' a cercare la tua amichetta, prima che io perda la pazienza e lo faccia da sola.»

Stavo per alzarmi, quando nel corridoio sfrecciò un urlo che zittì tutti. Mentre gli altri si guardavano con aria sconvolta, io e il mio orribile presentimento eravamo già fuori dalla classe.

Le macchinette non erano lontane. La bidella del primo piano stava guardando oltre l'angolo del corridoio con le braccia protese in avanti, come se cercasse di domare un animale pericoloso. Strillava "Aiuto! Aiutatela!". Mi si gelò il sangue nelle vene.

Corsi verso di lei, mentre dalle classi si riversavano alunni e professori lungo il corridoio. Non riuscii a credere ai miei occhi. Mina era a terra, rannicchiata su se stessa, mentre i quattro Drughi si alternavano per assestarle un calcio dopo l'altro. Così piccola e insanguinata.

Reagii d'impulso, reagii come se mi avessero colpito personalmente, un riflesso incondizionato. Purtroppo ebbi solo il tempo di schiantare Hulk, il più grosso del gruppo, contro il muro alle sue spalle, perché tutti i professori arrivarono in massa insieme agli studenti della scuola. Il prof di ginnastica mi tirò via di peso dal corpo di quell'idiota che mi aveva tormentato fin dall'infanzia.

Riuscii a calmarmi soltanto quando la vidi a terra. Piangeva. Mina, la mia Mina, non piangeva mai. Mi inginocchiai accanto a lei. Le sfiorai i capelli, ma lei rabbrividì, come se quel semplice contatto le provocasse un dolore acuto. Mi sentii impotente, infuriato, debole e distrutto. Le mia braccia tremavano. Puntai i quattro teppisti, accerchiati da tutti i professori, che si assicuravano di tenerli lontano da noi.

Le stetti accanto mentre aspettavamo l'arrivo dell'ambulanza. Mina piangeva ancora, teneva le mani sull'addome e cercava di muovere le gambe. Qualcuno mi diede una garza per tamponare il sangue che le usciva copioso dal naso.

I paramedici non mi lasciarono salire sull'ambulanza, lo fece uno dei professori. I Drughi erano spariti e così anche gli studenti, ritornati nelle loro classi per tentare di riprendere quanta più normalità possibile. Firmai a fatica la mia giustificazione per uscire e correre in ospedale. Sentivo i suoni ovattati e per poco non sbagliai il mio nome sulla giustificazione per scrivere quello di Mina. All'uscita vidi una volante dei Carabinieri parcheggiata fuori dalla scuola.

OUTSIDERSWhere stories live. Discover now