11. Non lo so

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Tom

«Non ti voglio qui, vattene via.»

Nonostante l'ostilità nel suo tono, mi infilai lo stesso sotto le lenzuola, anche se Mina si agitava e scalciava per impedirmelo.

«Ogni anno diventi sempre più insopportabile, sai?»

Lasciai scivolare un braccio sotto di lei per afferrarla. Si dimenò, per poco non mi colpì con una gomitata sul naso, ma alla fine si calmò tra le mie braccia. «E tu sei stronzo.»

«Smettila, fai sempre tutte queste sceneggiate ogni volta che torno in Italia. Si può sapere che ti prende?»

Di nuovo l'anguilla tentò di sgusciare via dalle mie braccia, ma non ci riuscì. «Cosa prende a me? Sei tu che torni dal tuo fottutissimo paese a stelle e strisce e pensi di essere superiore a tutti noi: gli sfigati dell'Italia campagnola.»

«Non ho mai detto niente del genere.»

«Lo pensi, però. E non mentirmi, perché ti conosco bene, purtroppo.»

Lasciai adagiarsi un attimo di silenzio tra di noi. Fingevo di non capire cosa la turbasse, ma in realtà lo sapevo, fin troppo bene. La mia vita a Los Angeles era del tutto diversa da quella che vivevo lì con lei. Io diventavo una persona diversa. Là avevo valanghe di amici, una villa a Beverly Hills, trascorrevo le giornate nella mia piscina o in quella dei miei ricchi vicini di casa. Mi sentivo importante davvero. Non ero solo Tom: lo sfigato, il ciccione, la palla di lardo che in palestra inciampava nei suoi stessi piedi. Non ero il ragazzo che non veniva mai scelto in squadra, quello che aveva iniziato a vedere un principio di barba solo l'anno prima. Avevo odiato il tempo della scuola trascorso a essere nessuno e lo ammettevo con sincerità: mi piaceva essere qualcosa di più. A Los Angeles le ragazze mi guardavano di nascosto, cercavano di attaccare bottone con me perché ero per metà italiano, e questo significava avere metà del lavoro già fatto con un'americana. Parlavo della bellezza di Roma e di Venezia anche se in realtà non c'ero mai nemmeno stato, e portavo le ragazze a cena nei ristoranti italiani spiegando come si cucinassero davvero i cannelloni o la pasta all'amatriciana, quando la mia più grande conquista in ambito culinario era sempre stata prepararmi un uovo sodo senza bruciarlo sotto. Ma loro ci cascavano, tutte quante, una dopo l'altra.

Ma Mina, che mi era cresciuta a fianco e sapeva i miei pregi e anche tutti i miei difetti, aveva capito ogni cosa.

«Mi dispiace», sospirai a fatica le paroline magiche che, alla fine, fecero il loro incantesimo: l'animaletto tra le mie braccia si ammansì.

«Un giorno ti accorgerai di non voler più vivere in questo posto noioso, partirai per la tua seconda casa e non farai più ritorno. Ti dimenticherai di me e di Luca.»

Abbracciai il suo corpicino sottile ma tanto energico. Quando la trovai mansueta a sufficienza, la strinsi ancora di più. I suoi capelli, corti e sempre spettinati, mi solleticarono le labbra quando mi addentrai in nella piccola selva profumata. Mi piaceva quel gesto, perché ogni volta riusciva a calmarla. «Vivrò per sempre nel posto più barboso d'Italia e del mondo, non preoccuparti. Non avrò tanta fortuna.»

«Tua madre a tavola ha detto che quando ti diplomerai, andrai a studiare a Los Angeles nell'università che ha frequentato lei e poi ti presenterà a qualcuno del suo giro per trovarti un lavoro.»

«Sarebbe un sogno per me... ma innanzitutto devo ancora essere accettato all'università. E poi, vorrei prima provare con le mie sole forze per vedere cosa riesco a combinare.»

«Ecco, vedi? Un giorno ci abbandonerai.»

Sbuffando, scivolai sul materasso per posare la testa sul cuscino e guardarla negli occhi, anche se nel buio totale della stanza era quasi impossibile. Riuscivo a percepire vagamente i suoi lineamenti esterni, ma nulla di più. Mi resi conto di essermi avvicinato troppo quando sentii il suo respiro sulle mie labbra. Mandai giù un fiotto di saliva, faticò a scendere.

OUTSIDERSWhere stories live. Discover now