49 Paracadute

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Mina

Le sue braccia tornarono a stringermi con intensità e mentre le sue labbra cercavano le mie con la stessa familiarità di un tempo, gli stessi gesti, gli stessi respiri, allora riconobbi Tom, il ragazzo che per anni avevo continuato a cercare in altri uomini, ma che non ero mai riuscita a trovare. Perché Tom mi aveva lasciato un marchio, la perfida promessa che non avrei più incontrato nessuno alla sua altezza in tutta la mia vita, e con la sua lettera mi aveva richiamata a sé, luna e marea, foglia, vento e gravità.

«Non posso.» Furono le sue parole a interrompere un attimo che profumava di perfezione. Aprì gli occhi e mi guardò, vicino e distante, due finestre spalancate su un passato di rimpianti.

«Lo so.» Abbassai lo sguardo, colpevole quanto lui, ma nessuno dei due sembrava avere la forza di allontanarsi l'uno dall'altra.

«Sto mandando a puttane tutto quello che avevo progettato», ammise al mio orecchio. «Ti ho chiesto di venire perché avevo bisogno di capire.»

«Capire che cosa?»

«Ciò che sei ancora per me», sussurrò e percepii tutta la paura, e la vergogna, e una profonda tristezza che finì per intaccarmi. «Ancora una volta sono stato egoista. Ho voluto vederti per togliere i dubbi che continuavano a tormentarmi. Come avrei potuto affrontare un matrimonio se... se tengo ancora Time come suoneria del telefono? Se porto ancora la nostra vecchia fototessera nascosta nel portafoglio?»

Quanto volevo sorridere e lasciarmi andare nel flusso della felicità che ancora una volta mi spingeva verso di lui, ma non potevo, perché le fondamenta delle sue parole erano costituite da un solido e incontrovertibile ma.

«A quale conclusione sei giunto?»

Tom mi lasciò andare e tenne le braccia lungo i fianchi, le dita tese. «Mi sono reso conto di non aver capito un cazzo», rispose con la rabbia nella voce. «Avevo creduto fosse un'illusione adolescenziale, che ti pensassi ancora solo perché ci eravamo lasciati senza spiegazioni. Mi sono convinto che se ti avessi incontrato, sarei riuscito a mettere una pietra sopra al passato. Ma non ho capito niente, come sempre, e tu sei ancora qui», si colpì con forza al centro del petto, «dentro e tutt'intorno.»

Quel passato che ormai viveva soltanto nei miei ricordi era trascorso così in fretta e ora potevo guardarlo nei suoi occhi, lucidi di rimpianti e di un amore ormai troppo lontano per tornare tra le mie mani. Così feci un passo indietro, e poi un altro ancora. «Torniamo a casa», dissi, la voce piatta e incolore.

Il viaggio di ritorno divenne un'agonia di silenzi, di fiato trattenuto prima di parole codarde, di mani bastarde che cercavano e fingevano di non farlo, di sguardi sfuggenti, oscurati di solitudine.

Una volta tornati nella sua villa, fu un buonanotte sussurrato a dividerci. Salii le scale dietro di lui e cercai la mia camera nel lungo corridoio immerso nella notte. Continuai a rigirarmi per ore tra le lenzuola, e il caldo opprimente era soltanto uno dei motivi. Chiudevo gli occhi per guardare il flash della porta della sua stanza, solo a qualche metro da me. Metri che per due come noi valevano chilometri.

Tom non avrebbe mai dovuto inviarmi quella maledetta lettera, solo per aprire una ferita che mi ero illusa di aver cicatrizzato da tempo. Perché lui aveva una vita piena di successi e di amore e una volta che io fossi tornata a casa, lui l'avrebbe ripresa in mano e avrebbe continuato come se non fosse successo nulla. Mentre io ne sarei uscita distrutta.

Di tanto in tanto sentivo dei rumori fuori dalla mia porta, scricchiolii del parquet, porte aperte e poi richiuse con tutta la premura per non farsi sentire. Quanto avrei voluto che fosse Tom e che la sua mano fosse presto arrivata a bussare alla mia stanza, ma dai passi lenti capii che si trattava della nonna e della sua incontinenza notturna.

Non riuscivo più a stare ferma, i pensieri erano ormai un turbinio incontrollato. Avevo bisogno di correre o anche solo camminare. Sarei passata davanti alla sua stanza solo casualmente, giusto per sbirciare dalla serratura, e poi avrei diligentemente tirato dritto per scendere nel giardino e cercare un angolo di pace.

Aprii la porta cercando di non fare alcun rumore, perché l'ultima cosa che avrei voluto fare era incrociare mia nonna in piena notte e farmi fare il terzo grado sulla serata trascorsa con Tom. Ma davanti alla porta della mia stanza, trovai proprio Tom. O meglio, la sua schiena, dato che se ne stava andando a passo svelto.

«Ehi», lo chiamai con un filo di voce, un po' per non svegliare nonna, e un po' perché il cuore non mi permetteva di aumentare il volume. Se ne stava a strombazzare con le casse a palla come uno stereo durante una lezione di spinning.

«Oh, sei sveglia.» Tornò sui suoi passi, una mano che passava distratta sulla nuca. Indossava soltanto un paio di pantaloncini gialli dei Lakers.

«Già, non riuscivo a dormire.»

Mi appoggiai allo stipite con la schiena, in silenzio, in attesa di una sua parola, di una spiegazione che mettesse fine alla mareggiata che faceva ondeggiare il mio cuore sullo stomaco.

«Nemmeno io.» Sospirò profondamente, la sua mano passò dalla nuca al collo, e dal collo alla mascella. Strinse qualche istante e lasciò andare con un gesto nervoso. «Sono furioso.»

«Con me?» chiesi d'istinto.

Tese la mano verso il mio viso e la appoggiò sulla mia guancia, il palmo aperto pronto a cogliermi come un calice di vino. Io non vedevo che i suoi occhi, piantati nei miei con radici così profonde che non ricordavo nemmeno quando avessero iniziato ad attecchire, e tutto intorno si fece nebbia e confusione, i contorni indistinti, la musica di un'autoradio che passa e va, Tom come unico punto fermo. «Con me?»

La sua testa fece silenziosamente di no. «Ho perso il conto delle volte che ho fatto avanti e indietro dalla mia alla tua stanza, e ogni volta mi frenavo appena prima di bussare. Sono un codardo, perché non ho il coraggio di ricordarmi di te e nemmeno di lasciarti andare. Perché sei sempre stata tu quella coraggiosa tra i due.»

Chiusi gli occhi e mi adeguai a quel palmo caldo e liscio, la pelle che un tempo amavo e conoscevo come fosse la mia. «Mi sento così debole ora», confessai in un sussurro, a stento riconobbi le mie stesse parole.

«Allora lo siamo in due.»

Anche l'altra mano si aggiunse, vibrai come invisibili onde sonore quando il suo respiro colorò il mio. «Mi vuoi spiegare ora che cosa devo fare? Volevo giurare la mia vita a un'altra persona, ma come posso farlo se adesso ci sei tu a tenermi incatenato e ti ostini a tenermi nascosta la chiave?»

«Credo di aver perso le chiavi quando mi hai lasciato sola in Italia.»

Alla carezza delle sue labbra seguì un bacio delicato, poi uno più deciso, uno più profondo e infine uno che mi pregava di non farlo smettere mai. Fluii tra le sue braccia, in quel luogo che avrebbe sempre profumato di casa. Mi raccolse contro di sé e mi riportò indietro. Chiuse la porta della mia stanza, protetti e dannati dal mondo esterno, e mi posò contro il legno. A ogni nuova danza della sua lingua, i nostri gesti si facevano più impetuosi, come se non ci fosse tempo, come se fosse già troppo tardi e allo stesso tempo troppo presto.

Mi tolse la t-shirt che usavo come pigiama con un movimento rapido, senza nemmeno farmi poggiare i piedi a terra. Lo stringevo con gambe e braccia, con tutta la mia forza per impedirgli di allontanarsi anche solo con i pensieri, perché Tom era il mio paracadute.

Quando mi adagiò sul letto e il suo corpo si adeguò al mio, schiacciandomi con un peso tanto dolce da spingermi alle lacrime per tutti i ricordi che presero vita intorno a noi, mi chiesi come avessi potuto illudermi di non amarlo più.

Senza esitazioni ritrovò la strada per entrare nel mio corpo e nel mio cuore, e vi entrò con una semplicità disarmante, ritrovando il mondo che aveva creato con le sue mani e abbandonato alla distruzione. Non servirono parole per tornare ad amarsi come un tempo, solo i sospiri, solo i nostri nomi mormorati nel buio, il viaggio delle nostre mani a ricomporre la mappa di corpi mai dimenticati.

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