46. Sul set

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 Mina

«E così, la troupe non può fare nulla senza la tua presenza?»

Lo osservai trovare parcheggio con il suo enorme SUV all'interno degli studios. Avevo vissuto tutta la vita in una cittadina di poche migliaia di abitanti che potevo percorrere da una parta all'altra a piedi in poco più di un'ora. Non riuscivo ad abituarmi alle enormi distanze di una metropoli come Los Angeles, dove in un'ora in auto potevamo coprire a malapena l'ampiezza di un quartiere.

«Esatto. Ed è un bene, perché in questo modo ho il controllo su tutti i livelli, dallo storyboard al montaggio.» Inforcò gli occhiali da sole e prese il portadocumenti dal sedile posteriore prima di scendere. Balzai in strada e mi affrettai per stargli al passo. «Ma ci sono anche diversi lati negativi. Oggi sono venuto prima per mostrarti il set e per parlare con Sarah.»

«Chi sarebbe Sarah? L'assistente alla regia?»

Lo seguii a passo svelto lungo una larga strada soleggiata che conduceva verso una serie di casette dai muri bianchi, circondate da aiuole tosate alla perfezione. Dovevano essere gli uffici della produzione. «No, è la coordinatrice degli stunt. Sta allenando le...» Aspettò qualche istante, allora capii che non trovava la parola giusta.

«Controfigure», suggerii.

«Ecco, sta allenando le controfigure per la scena di oggi, che prevede alcune acrobazie che gli attori non possono fare, ma sono sorti alcuni problemi che devo risolvere. Torno subito, aspettami qui.»

Attesi sul ciglio della stradina deserta, percorsa di tanto in tanto da qualche golf car carica di addetti ai lavori. Mi chiesi se una di quelle persone con cappellino e occhiali da sole potesse essere Leonardo, Brad o Meryl!

In quel mattino di sole e di novità, presi un respiro profondo e rilasciai la tensione accumulata nelle ultime ore. Ringraziai che la luce avesse cancellato le parole che ci eravamo scambiati quella notte. Tom aveva indossato di nuovo la sua maschera di indifferenza, mentre io fingevo di essermi dimenticata di tutto il nostro passato. Avevo accettato il suo invito ad accompagnarlo sul set nella speranza di passare più velocemente la giornata. Se fossi dovuta restare dentro quella casa, intrappolata tra le foto di Tom insieme alla sua dolce metà, sarei impazzita.

Dovevo soltanto far passare i giorni fino alla mia partenza per l'Italia e quell'incubo sarebbe stato archiviato per sempre. Purtroppo, in quel mondo patinato e così lontano dalla mia realtà, non c'era spazio per una come me.

Quando uscì, Tom teneva in mano uno spesso plico di fogli stampati su carta gialla. «Ok, possiamo andare.»

Lo seguii fino a una piccola golf car parcheggiata giusto dietro l'angolo dei bassi edifici. «Ti prego, posso guidarla?!» esclamai.

Con il mignolo portò gli occhiali da sole sulla punta del naso per soppesarmi con un'occhiata. «Guarda che non fa nemmeno le quindici miglia orarie, non ti agitare.»

«Quanti chilometri sarebbero?»

«Venticinque più o meno.»

Saltellai fino al piccolo mezzo verniciato di bianco. «Forte! Dai, fammelo guidare!»

Tom scoppiò a ridere e mi lasciò il posto di guida. Mi presi qualche secondo per capire come accendere quel trabiccolo e seguii le sue indicazioni, che mi portarono a svoltare più volte in un labirinto di stage enormi color sabbia. Di tanto in tanto sentivo strane urla arrivare dall'interno, risate, musica, e in lontananza mi convinsi di aver sentito perfino un'esplosione. Altri stage, invece, erano ancora in fase di allestimento e i tecnici accaldati trascinavano avanti e indietro lunghe anaconde di cavi elettrici e fari grandi quanto la cucina del mio minuscolo appartamento.

OUTSIDERSWhere stories live. Discover now