10. Come fondere i pezzi

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 «Venite a cena da noi stasera?» domandò la nonna mentre io e Tom salivamo al piano di sopra.

«Accetto volentieri», sospirò Moira. «Abbiamo il frigorifero vuoto e non ho alcuna voglia di andare a fare la spesa oggi. Il volo è stato infinito.»

Aiutai Tom a portare il suo bagaglio a mano mentre lui trascinava la pesante valigia senza troppo sforzo, e gli tenni compagnia mentre riordinava le cose nella sua stanza. Piuttosto che starmene sola a crogiolarmi nel sudore davanti alla Play Station, lo avrei guardato per ore annusare tutti i capi usati per dividerli in due distinti mucchietti, tra il salvabile e il decisamente non salvabile.

«Allora, che si dice qui?» chiese in un allegro inglese per poi virare all'italiano. «Vita noiosa come al solito?»

Riconobbi un dettaglio diverso anche nel suo modo di parlare e atteggiarsi. Non era solo la voce più profonda – quella mi aveva sorpreso non poco già durante le scuole medie, dato che gli era cambiata nel giro di un mal di gola durato tre giorni –, ma era l'atteggiamento spavaldo che usava come un mantello e che cozzava con il ricordo del mio timido e riservato migliore amico. Prima era tutto schiena incurvata e sguardo sfuggente, ora sembrava riempire l'intera stanza con gran sicurezza. Forse sarebbero sembrati solo dei dettagli per un occhio esterno, ma per me erano ingombranti quanto montagne.

«Già. Hanno soltanto beccato un paio di cretinetti della seconda C che cercavano di fare un murales sul portone della scuola. E direi che è stata una fortuna che li abbiano fermati in tempo, perché stava venendo pure da schifo.»

«Wow, ti sarai divertita un mondo, quindi. Devo dire che questo posto non mi è affatto mancato.» Arricciò il naso quando annusò un calzino e lo gettò nel mucchio dei senza speranza.

Alle sue parole, provai l'improvvisa voglia di scagliargli addosso la foto di Stanley Kubrick che teneva incorniciata sul comodino come quella di un lontano parente. Io avevo passato tre mesi d'inferno solo ad aspettare il suo ritorno, ma lui non si era nemmeno degnato di pensarmi una volta. «Ti ho scritto un sacco di messaggi, ma non mi hai mai risposto.»

Si avvicinò al letto, che occupavo interamente insieme alla sua valigia, ma non mi guardò nemmeno. Tolse dalla valigia una borsa di plastica che conteneva una ventina tra dvd e blu-ray e si occupò di riordinarli nella sua cineteca. Non esisteva nulla al quale teneva di più che quell'intera parete occupata da film ordinati per anno di produzione e regista.

«Già, ogni volta mi dimenticavo di risponderti. Sai, c'era sempre qualcosa da fare, gente da salutare, feste a cui i ragazzi mi invitavano. Là conosco un sacco di persone e non resto a casa quasi mai. Los Angeles è fantastica, Mina, doveresti venirci qualche volta. C'è sempre il sole, la piscina di casa mia è almeno il triplo di questa, ci sono feste tutte le sere, i ragazzi della nostra età hanno macchine da sogno e i miei amici sono troppo cool

«Nel senso di gay?»

Rise di me. «Non cul, idiota. Cool significa forte, interessante, alla moda. Se studiassi l'inglese come si deve, lo sapresti.»

Gli feci una linguaccia e mostrai entrambi i medi, ma Tom si era già voltato e non lo notò.

«Per quanto starà qui tua madre?»

Tom non mi rispose, troppo impegnato a riordinare i film sugli scaffali. Dovetti ripetergli la domanda altre due volte per ricordargli della mia esistenza.

«Credo per almeno due mesi. Ha lavorato tutta l'estate e ora dice di voler restare un po' in Italia.»

«Uff, quindi dormirai qui.»

«Per fortuna, almeno questo letto è decente. In quello di casa tua ormai ci sto a malapena. Soprattutto quando ti ci infili di notte e mi togli lo spazio.»

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