44. Situazioni imbarazzanti

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Dieci anni più tardi...

Mina

Con una lunga serie di sbuffi e borbottii contrariati, sollevai l'ultima valigia della serie. Mi chiesi se il taxi sarebbe riuscito a portare tutti i nostri bagagli. I suoi, per lo meno.

«Dovremmo stare qui soltanto cinque giorni, nonna. È mai possibile che ti sia dovuta portare tutta questa roba?»

Da sotto l'enorme cappello arancione che aveva insistito per indossare fin dal decollo, la nonna non mi guardò nemmeno. Girava la testa tutt'intorno per capire dove fosse l'uscita dalla zona bagagli dell'aeroporto di Los Angeles. Il viaggio che le avevo proposto era stato un ottimo diversivo dalla noia di tutti gli altri giorni: se ne stava a guardare intorno con l'aria agitata della lepre pronta a spiccare un balzo. Io, invece, avevo l'energia di un bruco mentre fila il suo bozzolo. «Ti trovo molto agitata, cara. Rilassati, prendi dei respiri profondi.»

Ringhiai. Era da Malpensa che mi ripeteva di rilassarmi. «Se mi dici ancora una volta di stare calma, ti pianto qui e torno a casa con il primo volo disponibile.»

Tese il braccio ripiegato per richiamarmi a sé. «Lasceresti una povera vecchietta indifesa in un paese straniero e senza sapere nemmeno la lingua?»

«Non ho mai conosciuto qualcuno meno indifeso di te.» Le diedi il braccio per appoggiarsi – nonostante tutta la sua energia e il carattere pungente, anche la nonna aveva dovuto fare i conti con l'avanzare dell'età – e spinsi il carrello colmo di valigie verso le porte scorrevoli dell'uscita. Quel maledetto cappello non solo attirava gli sguardi di tutti i presenti, ma continuava a colpirmi sulla faccia, tanto era grande.

«Come ti senti?» mi domandò.

«Non vedo l'ora di concludere tutta questa faccenda e tornare a casa. A lavoro mi aspettano.» Scrollai la testa. «Non sarei mai dovuta venire.»

«Senza il tuo enorme contributo per cinque preziosi giorni, la palestra andrà sicuramente in rovina.» La guardai di traverso per abbattere il suo sarcasmo fuori luogo, ma la falda del cappello la nascondeva.

«Guarda che ho i corsi da tenere e non posso stare via troppo a lungo, perché non hanno chi può sostituirmi», insistetti.

Agitò una mano per zittirmi. «Possono sopravvivere senza fare yoga per qualche giorno.»

«Non insegno solo yoga», borbottai offesa.

«Hai il ciclo per caso? Perché sei intrattabile.»

«Ha parlato il tenero bocconcino.»

«Ok, cambiamo discorso.» Seguimmo il flusso di persone attraverso il disegno di svolte e scale all'interno dell'aeroporto e finalmente adocchiammo le porte scorrevoli che conducevano all'esterno. «Hai portato dietro l'indirizzo da dare al tassista, vero?»

«Potresti avere un principio di Alzheimer, sai? Me lo hai ripetuto almeno otto volte da quando siamo partite.»

Estrassi il foglietto dal portafoglio, anche se dopo giorni avevo finito per imparare l'indirizzo a memoria. All'invito al matrimonio avevo risposto con una telefonata al numero che avevo trovato in calce alla lettera. Più di un giorno avevo impiegato per trovare il coraggio di comporre il numero, calcolando le ore di fuso orario che ci dividevano per non rischiare di svegliarlo nella notte. Dopo tante ore di indecisione e battiti accelerati del cuore, aveva risposto una ragazza dalla voce sottile. Era "l'assistente del signor Thomas", evidentemente troppo impegnato giorno e notte con le riprese del suo ultimo film per perdere tempo in basse faccende, tipo le sue nozze. Disse di chiamarsi Francis, o qualcosa del genere, dato che la sua parlantina supersonica aveva reso la frase un Margarita shakerato di sillabe. L'assistente, già messa al corrente della mia possibile telefonata, mi confermò l'indirizzo e la data contenuti nella lettera e tornò a occuparsi dell'impegnato regista.

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