2. Il bambino fantasma

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Mina

«C'è sempre disordine dappertutto! Mina, oggi pomeriggio metterai a posto i giochi che tu e Tom avete lasciato ieri in cortile, hai capito?»

Quando si infuriava con me – il che accadeva la maggior parte delle volte – la voce della nonna si faceva tanto potente che non c'era angolo in tutta la casa che potessi usare per ignorarla.

«Sì, nonna!»

«Sei pronta? Hai messo il vestitino azzurro che ti ho comprato ieri?»

Sbirciai la mia figura allo specchio: capelli corti biondo cenere – ovviamente spettinati dato che passavo la maggior parte delle mie giornate a correre –, pantaloni della tuta e felpa con la stampa della Morte Nera. Niente a che vedere con quel triste e scomodo abitino. «Sì.»

«Allora sbrighiamoci, dobbiamo andare a scuola. Vai a chiamare Tom, così verrà con noi. Non penso che voglia farsi accompagnare dalla tata.»

Quel giorno sarebbe stato il primo, nonché l'ultimo, che mi avrebbe vista andare a scuola con il sorriso sulle labbra. A sei anni non conoscevo di certo l'Inferno di Dante, per cui non sapevo ancora di stare per compiere il primo passo nella mia personale discesa negli inferi.

La settimana precedente avevo comprato tutto il necessario con la stessa minuzia che avrebbe impiegato il topolino Prof. nello stendere il suo piano per la conquista del mondo: astuccio nuovo con matite dalla punta affilatissima, zaino fiammante, quaderni intonsi e un diario rosso e nero con la maschera di Darth Vader, che mi aveva fatto innamorare a prima vista. Tutto rigorosamente a tema Star Wars. Soddisfatta all'idea di mostrare il nuovo arsenale al mio migliore amico, richiusi lo zaino e lo misi in spalla. Il riflesso nello specchio mi sorrideva.

Mi affacciai dalla mia stanza al primo piano e provai a chiamare Tom, ma lui non riuscì a sentirmi. Teneva la finestra della sua camera sempre aperta per potermi chiamare ogni volta che voleva grazie al nostro telefono meccanico – fatto di spago e due bicchierini di plastica –, ma la grassa strega della sua tata la richiudeva ogni volta per impedirci di parlare la notte.

C'era il sole quella mattina di metà settembre e la pancia un poco ribolliva di trepidazione all'idea dell'inizio di una nuova avventura. Era una giornata troppo bella per sprecarla a scendere delle semplici scale e privarmi così di uno dei divertimenti più grandi. Scattai quindi alla porta della camera e origliai i passi della nonna al piano di sotto: si era appena chiusa in bagno per truccarsi prima di accompagnarci a scuola. Nonna non usciva mai di casa senza prima colorarsi gli occhi e la bocca. Diceva che così gli uomini non l'avrebbero presa per una nonna decrepita, anche se in realtà aveva pochi anni in più rispetto alla madre di Tom.

Una volta assicuratami che non potesse scoprirmi, ne approfittai. Nonna mi impediva di fare un sacco di cose, di solito le più divertenti, ma avevo anche capito una verità fondamentale: se non mi vedeva con i suoi occhi, allora non seguivano sgridate.

Semplice, no?

Gettai prima lo zaino giù nel giardino per non intralciarmi nei movimenti. Toccò l'erba solo dopo che la mia bocca ebbe pronunciato per intero Millennium Falcon. Allora fu il mio turno: mi appesi alla cornice della finestra, ondeggiai le gambe per darmi lo slancio e afferrai il ramo più vicino del grande e vecchio pino. Mi calai ancora giù, ciondolai dalla fronda più bassa e mi lasciai andare sul terriccio. Atterraggio eseguito alla perfezione. Zaino in spalla e un attimo dopo scavalcavo la rete per correre alla sua porta. Fu la tata ad aprire: una donna che al suo interno poteva contenere almeno tre volte mia nonna e me, una sorta di lupo di Cappuccetto Rosso decisamente sovrappeso. Non sorrideva mai, non ci faceva fare un sacco di cose perché sosteneva che fossi una compagnia poco raccomandabile, aveva i baffi e Tom era convinto che fosse andata a male perché certi giorni puzzava come il gorgonzola.

OUTSIDERSWhere stories live. Discover now