6. È tutto ok

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Quando arrivai a casa mio padre era in cucina. Era rientrato da poco, aveva ancora addosso la giacca a vento e se ne stava in piedi vicino al lavello, davanti al sacchetto di un negozio di articoli per il giardinaggio.

- Voglio provare a far crescere delle zucchine sul retro, - mi spiegò, tirando fuori un pacchetto di semi e agitandolo nell'aria. - Mi darai una mano?

- Ok, - risposi.

Lui mi sorrise. - Com'è andata col giornalista stamattina?

- Uhm. Non saprei, credo bene. - Mio padre si era anche proposto di prendere un giorno di ferie, per quella mattina. Forse pensava mi servisse assistenza o, non so, del tifo. Io però gli avevo detto che non era necessario e che avrei potuto benissimo gestire la situazione per conto mio: sin dal principio non avevo attribuito a quell'incontro particolare importanza.

- Quindi pubblicheranno l'intervista?

- Questo non saprei dirlo, - risposi, aprendo il frigorifero.

- Uhm. Ah, comunque: hai detto che non ci sei stasera per cena, giusto? O mi sbaglio?

- No, non ti sbagli. Tra poco vado da Dennis.

Quando richiusi il frigo con il succo alla pera in mano, mio padre era bloccato: se ne stava lì a guardarmi con aria apprensiva.

- Ah. E c'è anche...

- Sì. Sì, ovvio. C'è anche Alessio.

La situazione era un po' complicata per mio padre: dopo più di un anno passato a ritenere Alessio responsabile della mia sparizione, se non di peggio, non mi aspettavo che lo accogliesse così, a braccia aperte, come se nulla fosse. Lui sapeva che era innocente, ma aveva bisogno di tempo... Per elaborarlo, insomma: per interiorizzare quella nuova scoperta. Tuttavia, io di tempo ne avevo avuto in abbondanza e decisamente non me ne serviva dell'altro. Mio padre questo lo aveva capito, perciò c'era una sorta di accordo: io avrei evitato, per il momento, di invitare Alex in casa; però, fuori di casa, potevo fare come mi pareva.

- Va bene, - mi rispose. - Poi venerdì, se vuoi, facciamo l'orto insieme.

 - Poi venerdì, se vuoi, facciamo l'orto insieme

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Arrivai ai Colli qualche ora dopo. Citofonai e mi feci aprire il cancello. - Non far uscire il cane! - l'ammonizione metallica di Dennis dall'interfono. Credetti si riferisse al suo, di cane. E invece no: dopo aver parcheggiato l'auto nel suo vialetto, intravidi Diotima, seduta sull'erba, dietro il garage.

Se ne stava là, ferma come una statua. Non pareva avere alcuna intenzione di uscire dal cancello, forse non si sarebbe spostata neanche se l'avessi spinta a forza. E mi guardava, come se mi avesse atteso.

- Ehi. 

Mi avvicinai per accarezzarle l'orecchio, e lei mi leccò la mano. Mi accovacciai, per portarmi alla sua altezza; e, per un po', restammo a guardarci negli occhi, nella penombra della sera. La quiete del suo sguardo era profondissima; come se non potesse essere scalfita da nulla: da nessun imprevisto, nessun rivolgimento della sorte. Era quel tipo di sguardo che, anche senza parlare, sembra comunque voler dire qualcosa, tipo che devi avere fiducia, perché a tutto c'è uno scopo, anche se per adesso non è chiaro; e che non devi avere paura, perché è tutto ok, anche se non sembra. Insomma, cose così.

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