15. I gregari

95 19 51
                                        

- Sai, per un paio di settimane dubito che potremo tornare a casa di Dennis, - disse Alex, tamburellando le dita sulla poltroncina rossa in similpelle. Eravamo seduti l'una di fronte all'altro, a un tavolo dell'American Diner. Stavamo sorseggiando delle bibite gassate, in attesa delle nostre ordinazioni. La radio diffondeva dei pezzi rockabilly sopra le nostre teste, i colori dei poster e delle insegne al neon alle pareti erano così accesi da stordire.

- Perché? - gli chiesi.

- Sua madre è tornata martedì scorso, - spiegò, afferrando il suo bicchiere. - Basandomi sulle mie stime, dovrebbe trattenersi una ventina di giorni al massimo.

- Sua... Dennis ha una madre?!

- Be' sì, - mi rispose, divertito dalla mia reazione. - E, a quanto pare, ha avuto una crisi nervosa quando ha visto le condizioni in cui era stata ridotta la casa. Quindi, ecco... non è un buon momento per presentarsi ai Colli.

- Si è arrabbiata, eh? - Non si poteva dire che non fosse comprensibile.

- Già. Specialmente quando ha trovato Alvaro.

- Alvaro?

- L'hippie nudo nel bagno. È venuto fuori che si chiama Alvaro.

- Ah, già... - Dopo la festa del sabato precedente, ero rimasta convinta che l'hippie nudo fosse stata solo un'allucinazione di Sumaya. - Ma, aspetta un attimo... Per... Per quanto tempo è rimasto in quel...

- Tavolo dodici in arrivo! - Una cameriera vestita con una divisa in stile anni Cinquanta comparve alle spalle di Alex proprio in quel momento, portandoci i vassoi. - Due cheeseburger con contorno di patatine, giusto?- chiese in tono squillante. Alex confermò e, quando fummo serviti, ci dicemmo buon appetito e iniziammo a mangiare.

- Come vi siete conosciute tu e Sumaya? - mi chiese, intingendo una patatina nella maionese.

- Eravamo vicine di banco al liceo, - gli dissi. Aggrottai la fronte, cercando di racimolare le informazioni essenziali. - Lei era ripetente, perché all'epoca non conosceva una parola di italiano; e... Siamo diventate amiche perché ci prendevano entrambe in giro, per... Per l'abbigliamento, direi. E tu e Dennis, invece?

- Hm. - Riappoggiò il suo bicchierone sul tavolo e ingoiò il sorso di Coca-Cola. - Per un periodo abbiamo suonato insieme, - mi rispose.

- Eravate in una band?

- Non proprio. O meglio, sì. Ma forse non nel senso che credi. - Rise. - Alle medie andavamo insieme alle prove della banda "Gioacchino Rossini". Hai presente la parata del Santo Patrono?

Smisi di mangiare la patatina che avevo in mano. - Non ci credo.

Annuì. - Io suonavo il sassofono. Dennis il clarinetto. Ci siamo trovati subito. È stato un bel periodo, ci divertivamo. Almeno finché non ci hanno espulso entrambi con ignominia. - Scosse le spalle. - Lunga storia.

Non mi ero ancora ripresa dall'immagine di loro due nella banda da parata. - Mi dispiace... che vi abbiano espulsi. ­- Non ero certa di quello che stavo dicendo.

- Oh, non serve. Ne è valsa la pena. Non immagini. - Rise. - E poi Dennis ha trovato la sua strada musicale, alla fine. Da qualche anno suona la chitarra. Se la cava bene.

E da lì, iniziammo a parlare di musica, di cinema e di libri. Scoprii che il suo gruppo preferito erano i Jefferson Airplane; che il migliore tra gli ultimi film che aveva visto al cinema era quello di Polański; e che il suo scrittore preferito era Dostoevskij. - Ma chi non direbbe Dostoevskij? - chiesi io; e gli dissi che avrei voluto sapere il suo scrittore preferito oltre a Dostoevskij. Allora ci pensò su e alla fine mi rispose che, visto il suo corso di studi, per lui era difficile sceglierne uno in particolare; che ne aveva molti in testa e che un po' alla volta me li avrebbe elencati tutti, così non avrebbe fatto un torto a nessuno; e che nell'ultimo periodo stava leggendo Jay McInerney e che, secondo lui, la scrittura in seconda persona non era male; e mi chiese se mi fosse piaciuto Dune.

E io pensai che lui mi piaceva; e che quel piacere coinvolgeva vari livelli; mi piaceva ciò che diceva e come lo diceva; mi piacevano il concetto, la forma e il tono; mi piaceva perché diceva alcune cose che mi suonavano familiari; e altre che invece mi lasciavano sconcertata ma che in seconda analisi erano familiari ancor più delle prime, solo più scabrosamente vere; e mi piaceva perché diceva entrambe le cose con assoluta innocenza, come se non si rendesse conto della differenza tra l'una e l'altra. Mi piaceva perché mi sembrava tutto molto semplice; e perché io sentivo il bisogno di cose che fossero semplici da dovunque provenissero; e lui era semplice perché l'apparenza pareva coincidere con la sostanza e perché sapevo bene che a volte alcune cose sembrano complicate solo perché qualcuno ha la volontà di renderle tali, eppure non significano niente; e invece lui era lineare; A era A e B era B; e io non stavo facendo alcuno sforzo; ed era semplice perché neanche lui faceva sforzi, alla volontà corrispondeva la dichiarazione d'intenti, al pensiero corrispondeva la parola e alla parola corrispondeva il fatto, punto e fine; e mi piaceva perché si comportava come se in vita sua mai l'avesse sfiorato il pensiero che un atteggiamento diverso avrebbe potuto servirgli; e in effetti non gli serviva; e mi piaceva perché con lui sembrava incredibile che altrove le cose andassero in maniera diversa.

E pensai che questa non era l'unica cosa incredibile, viste le circostanze. Ad esempio, era incredibile che io mi trovassi lì, cioè che io fossi uscita con lui, non tanto perché in lui ci fosse qualcosa che avrebbe dovuto trattenermi dal farlo, quanto perché c'erano milioni di altri motivi che avrebbero potuto trattenermi dall'uscire con qualcuno, eppure ero uscita. E a quel punto mi chiesi se non fosse stato un errore, se ci avessi riflettuto a sufficienza, se le mie percezioni fossero affidabili, dal momento che in passato il bianco si era tramutato in nero a velocità così precipitose che non avevo avuto il tempo di vedere le scale di grigio; e pensai che, per le leggi naturali, se qualcosa accade una volta, ciò vuol dire che è possibile e che quindi può accadere un'altra volta. E quando lo guardai di nuovo, il mio desiderio che il bianco fosse bianco, che il nero fosse nero e che non ci fosse mai più confusione tra le due cose si proiettò su di lui e fu così intenso che mi sentii consumata.

Avrei voluto chiederglielo. Avrei voluto chiedergli quali colori ci fossero nel suo spettro e se questi colori sarebbero stati sempre così o se anche i suoi sarebbero cambiati senza preavviso. Se le parole avrebbero continuato ad avere per sempre il loro senso, il loro unico senso; o anche più di uno, purché ogni senso potesse essere definito a seconda del contesto; oppure se anche con lui sarebbe arrivato il giorno in cui non avrei più saputo dov'era l'alto e il basso, l'est e l'ovest e in cui ogni linguaggio sarebbe risultato pervertito, ogni parola un tranello, ogni frase un imbroglio. Avrei voluto spiegargli tutto ciò, metterlo giù in modo chiaro, o anche confuso, non aveva importanza; perché qualcosa in lui mi faceva pensare che avrebbe capito in ogni caso e che mi avrebbe dato una risposta che mi sarebbe stata bene. Ma non gli dissi niente di tutto questo. Gli dissi che mi era piaciuto un sacco Dune, proprio un bel libro.

Quando uscimmo dall'American Diner erano quasi le undici. Avvicinandosi alla macchina, mi chiese: - Chiara, preferisci andare a casa?

- In realtà no, - risposi. - Tu?

E mi sorrise. - Magari ci fermiamo da qualche altra parte.

E fu deciso così.

RecursionWhere stories live. Discover now