3. Tossine per tossine

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Il signor Khan ebbe appena il tempo di accostare sul lato destro della strada, io quello di slacciare la cintura e aprire la portiera. Non ebbi invece il tempo di uscire dal taxi: vomitai sulla striscia di margine della carreggiata rimanendo seduta, un rigetto, due rigetti, il corpo piegato a metà. Non avevo cenato, perciò vomitai perlopiù acqua, succo di pompelmo e una poltiglia di patatine alla paprika. Provai una scarica di benessere per i primi trenta secondi; poi la devastazione.

Il signor Khan era sceso sul marciapiede e mi fissava, col palmo sulla fronte.

«Non vorrei intromettermi, signorina,» mi disse, «ma forse lei dovrebbe andare in questura». Si avvicinò di un passo per porgermi una salvietta.

Sputai, le spalle scosse dal tremore, il busto che sporgeva dal veicolo e la mano destra aggrappata alla portiera aperta. Alzai un occhio verso di lui e lo guardai attraverso una ciocca di capelli. Allungai il braccio in un gesto scoordinato; lui mi depositò la salvietta tra le dita.

«Mi serve solo un posto in cui passare la notte» gli risposi. Avevo una voce piatta e spaventosa. Mi dispiaceva sembrare scortese, ma ero sfinita. Avevo un’unica urgenza: volevo mettermi a letto. Magari riuscire a fare una doccia. Non mi era possibile concepire nessun’altra iniziativa.

«Ma almeno vada in ospedale.»

«La prego, non insista. Vorrei andare in un albergo.»

Il signor Khan sospirò. Iniziò a girare in tondo, si carezzò la stempiatura.

«Ha prenotato?»

«No.» 

Ci fu un lungo silenzio.

Si tirò la manica del giaccone e lesse l’ora alla luce del lampione sospeso sopra la sua testa.

«Sono quasi le due di notte» mi informò. Io non dissi niente; mi pulivo il viso dai residui del mio stesso vomito e dalla saliva; piegai la salvietta in quattro e mi asciugai gli occhi. Avevo del sangue impiastrato sulla tempia. Strinsi la carta nel pugno e riappoggiai la schiena al sedile, mi tenevo il ventre con le mani. Sentivo un pessimo sapore in bocca.

«È improbabile che lei trovi una camera d’albergo a quest’ora. Sarebbe più pratico se si rivolgesse a un motel a ore.»

«Fantastico» borbottai senza entusiasmo.

«Il motel a ore più vicino è fuori Pisa, oltre l'aeroporto» insistette.

«Va bene quello.»

«Solo che io faccio le corse urbane. Avrebbe dovuto chiamare il servizio per le corse extraurbane, se voleva arrivare fin là.»

«Ah.»

E ci fu di nuovo un lungo silenzio. Qualche macchina sfrecciava di tanto in tanto lungo la strada.

«Be’. Lo chiamo, allora. Però non conosco il numero.» Mi chinai sullo zaino, per aprire la tasca posteriore.

«Lasci stare.» Con un movimento repentino il signor Khan tornò al posto del guidatore e richiuse la portiera. Bofonchiò qualcosa che non compresi, poi aggiunse: «La porto io». E accese il motore.

«Non voglio crearle problemi» gli dissi; avevo il cellulare in mano. «Posso anche scendere e aspettare qui.»

«Lasci stare, le dico.» Poi tacque; e il suo mutismo fu spezzato solo dal ticchettio dell’indicatore di direzione. Anche io richiusi la portiera e il taxi urbano rientrò nella carreggiata. La città ricominciò a muoversi al di là del finestrino.

«Grazie, signor Khan.»

Mi rispose con un brontolio indistinto, suppongo in urdu.

Mi rispose con un brontolio indistinto, suppongo in urdu

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