16. La Chiamata

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Jessel saltò giù dal poggio trascinandosi dietro una scia di terriccio e sassolini. Indicò il suolo, alla sua destra. - Ecco qua.

Per seguirlo nella discesa mi ero aggrappata a una radice sporgente. Mi portai al suo fianco. - Hm. È parecchio krush.

- Te l'avevo detto. Queste qui tra un paio di giorni saranno sbocciate. - Poi io mi chinai a mettere le mani su una piantina e lui mi guardò storto. - Che fai? Non vanno colte adesso.

Sollevai la testa. - Voglio provare a piantare dei semi in un vaso. Se germogliano, posso anche interrarli più vicino alla radura.

Lui prese a fissarmi imbambolato, con le labbra dischiuse e le pupille appena dilatate.

- Non hai mai pensato di provarci, vero?

- Tu sei un genio.

Dopo ch'ebbi infilato una manciata di semini nella busta di stoffa, io e l'apprendista rifacemmo il percorso al contrario. Camminavamo a fianco a fianco tra gli alberi, con le mani in tasca e lo sguardo attento alle asperità del terreno.

- Tu senti mai Mirestin gridare, di notte? - mi chiese a un tratto.

- No, - gli risposi. - Perché, tu sì?

- La stanza dove dormo si affaccia proprio sulla sua... Ci saranno dieci passi nel mezzo. All'inizio ogni volta pensavo stesse per partorire. Poi abbiamo scoperto che ha gli incubi, per questo urla così. E se vai da lei quando si sveglia, si mette a raccontare storie orribili, su quel... quel tizio. Storie di cose successe davvero, dice, che prima non ricordava.

Rimasi per un po' in silenzio. - Io so solo che è una settimana che non la vedo uscire. Sta sempre là dentro, - borbottai.

- Già. - Jessel tirò su col naso, osservando uno spiraglio tra le frasche da cui sbucavano i contorni delle prime abitazioni. - C'è gente che s'è messa a dire che porta in grembo il figlio del Fefnuk, e che c'è una maledizione che si abbatterà su di noi se non facciamo qualcosa. Credo che lei li abbia sentiti. Per questo non esce.

Forse ero stata distratta in quei giorni, perché non avevo notato niente, né in casa era mai stato riferito nulla di simili dicerie. - E tu? - gli chiesi in tono indagatorio, mentre superavamo il limitare del bosco. - Anche tu lo pensi?

- Hmmm. - Dopo qualche passo si fermò, volgendo lo sguardo alla sua destra. Anche io mi voltai. Dall'unica finestrella della capanna costruita da Buriana si intravedeva appena, nell'ombra, il viso scuro della donna che guardava con apprensione in direzione del mercato. - Non lo so.

In effetti, c'era un po' di ressa nella zona delle bancarelle e della gente s'era messa a parlarsi addosso a volume sempre più alto. Pur senza nessun accordo, io e Jessel ci mettemmo a camminare per un po' nella stessa direzione, finché lui non cambiò strada e s'infilò dietro un muro. - Tienimi aggiornato sulle piantine, - mi disse, poi sparì.

Man mano che avanzavo, riconobbi la voce imperiosa di Lorrina. - Siete delle bestie! Parlate tanto del Fefnuk, ma voi?! - Non l'avevo mai sentita urlare a qualcuno che non fosse Reven.

In lontananza, vidi la sagoma di Jemina tra la folla. Se ne stava con la schiena appoggiata a una parete e le braccia incrociate sul petto. Seguiva la lite senza muovere un muscolo.

Mi avvicinai a lei. - Che succede?

Appena s'accorse di me schioccò la lingua, scosse la testa e indicò la piazza col mento.

Davanti a un ripiano imbandito di volatili morti ancora da spennare, si ergeva la figura di Larrum, coi suoi inusuali baffoni, gli occhi scuri e adirati. - Lorrina, cerca di usare il cervello, una buona volta! - sbraitò, picchiettandosi un dito sulla fronte. - Abbiamo già tanti guai! Ne vuoi altri?! Quell'abominio non può nascere qui! La donna va cacciata!

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