11. La Retta Via

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- Allora, ti sei convinta, finalmente?

Ma io non potei risponderle. Le mie mani, appoggiate al metallo dei braccioli di quella scomoda sedia, stavano tremando, come impazzite; e io non riuscivo a fermarle. Stritolavo nel pugno il fazzoletto di carta, con una forza eccessiva; mentre un nodo, stretto in gola, mi impediva di respirare.

- Chiara.

Sentivo la testa come schiacciata tra due rulli compressori. Un suono acuto, fisso, mi attraversava le tempie. Alzai lo sguardo su di lei, oltre la scrivania. La vidi. Appannata dalle lacrime. Sullo sfondo della parete azzurra. Sotto al crocifisso, appeso alle sue spalle.

- Non riesco...

- Devi stare tranquilla. - Mi disse, attorcigliando le dita assieme, al centro del tavolo. - È tutta una questione di volontà.

- Non lo so... Io non credo...

- Sì, invece, - rispose dura; e le sue labbra sottili si serrarono, sigillate. Le parole che pronunciava, nel contenuto, sembravano così incoraggianti; ma il suo viso. Il suo viso era come un punteruolo. Ti trafiggeva il cervello, non ne usciva più. Scosse la testa. - Lo so cosa pensi, - commentò, infastidita. - Cosa credi? Ne ho viste tante, prima di te. Ed è sempre così, Chiara. Sempre uguale. Ma c'è un motivo se tu sei qui. E c'è un motivo se io faccio questo lavoro. - Mi fissò. - Il motivo è che io so di cosa sto parlando, mentre tu no. - E lasciò che quelle parole si sedimentassero, tutte attorno a me.

Cercai di aggrapparmi a qualcosa. Qualcosa, non so. Ma qualunque cosa fosse: mi stava sfuggendo. Anche io la guardai. Non so cosa cercassi, in lei. Una tregua. O forse, pietà.

- Ti devi fidare di quello che ti dico: lo puoi fare. Si tratta di una cosa che si può - e sfiatò come un toro, - correggere.

- NO!

Sbarrai gli occhi: il soffitto, di fronte a me. E un sibilo, acutissimo, mi raschiò la gola. Per una serie di lunghi, interminabili secondi, non riuscii a respirare. Un suono mi rimbombava nelle orecchie: "Correggere, correggere, correggere". E, senza capirne il motivo, iniziai a singhiozzare. La trachea sobbalzava, e il mio corpo si avvolse su se stesso; mi trovai rannicchiata, sotto le coperte del letto di camera mia, in posizione fetale. A piangere. Senza sapere il perché.

E non andò meglio, quando mi alzai. Tutto ciò che feci: andare in bagno, lavarmi il viso, i denti; mettermi dei vestiti, il cappotto; uscire di casa; raggiungere lo Space Oddity, fare colazione con Alex: cappuccino, brioche; e riprendere l'auto per andare alla stazione. Tutto si svolse in modo meccanico. Ero assente.

Quando mi ritrovai seduta nel vagone del treno, con Alex davanti a me, ero ancora sconvolta. Tenevo stretto il sasso avvolto nel foulard rosso e nero. E guardavo oltre il finestrino. C'era la nebbia, sospesa sull'erba dei campi. Per chilometri e chilometri.

- Ehi, - mi fece Alex. Mi voltai verso di lui. Teneva le mani nelle tasche dell'eschimo aperto. - Sei silenziosa, stamattina.

Sospirai. - Non ho dormito bene.

Lui si chinò su di me per afferrarmi un ginocchio, come se ci volesse giocare. Aveva dei guanti di lana, rossi e blu, che gli lasciavano scoperte le dita. - Posso farti una domanda? - mi disse.

- Vai.

E lui indicò il fagotto che tenevo tra le dita. - Quel sasso. È un sasso, dico bene?

- Uhm. Sì.

- Ho notato che lo porti sempre con te. E che lo afferri, ogni volta che non stai bene. Ha un qualche significato particolare?

Io aprii la mano e me l'avvicinai al viso. Col il pollice, accarezzai il tessuto, stretto attorno alla superficie di pietra. - Sì. Me lo hanno dato delle persone, mentre ero... Sai. Persone che mi hanno dato una mano. So che è buffo da dire, perché è solo un sasso. Però, penso che mi abbia... portato fortuna, - spiegai.

RecursionWhere stories live. Discover now