«Non c'è evento che avvenga una volta soltanto, né cosa che esista senza esser già esistita.»
11 novembre 2011, ore 00:42
Questa la data e questa l'ora a partire dalle quali Chiara - studentessa di 21 anni nella città di Pisa - non subirà mai più al...
"Chiara... Ciao. Mi dispiace per tutte le chiamate che ti ho lasciato. Non so perché tu non stia rispondendo. Magari vuoi solo stare un po' per conto tuo, e va bene. Solo che... Non so, avevo una brutta sensazione, e... È una cosa che mi è già successa una volta, io..." Un sospiro. "Volevo solo assicurarmi che fosse tutto ok. Richiamami, quando puoi. Ciao."
Il vocale si interruppe. Risollevai la fronte a fatica dallo sterzo.
Ero al centro di un parcheggio vuoto, a quattordici chilometri di distanza dalla clinica di salute mentale e a oltre due ore di viaggio da casa mia. La macchina era spenta, ferma davanti alle transenne di un cantiere edile, annichilita sotto la tempesta. Ero lì per evitare di ammazzarmi schiantandomi contro un muro. Perché questo sarebbe successo, se avessi continuato a guidare: la vista che continuava ad appannarsi, le ginocchia che tremavano in maniera convulsa. Non riuscivo più a gestire la forza da applicare ai pedali e, soprattutto, non vedevo un cazzo della strada. Non potevo continuare a guidare.
Stavo lì, col cellulare in mano. La fragile impressione uditiva della voce di Alex, appena distorta dall'altoparlante del telefono, si fondeva col grido bestiale di Venafsaj, ancora inciso nelle profondità del mio lobo temporale. La pioggia che picchiava dura sul parabrezza e distorceva le sagome del mondo al di là.
Caddi in un vortice di insensatezza. "Alex. Non ce l'ho con te", scrissi. E cancellai senza inviare. "Mi dispiace". Cancella. "No, non è tutto ok. Raggiungimi, ho bisogno che tu venga qui". Cancella. "Non ce la posso fare da solo". Cancella. "Da sol-." Cancella.
Gettai il cellulare in un moto di stizza sul sedile accanto, assieme al disegno stropicciato di Venafsaj. "Non posso parlarci adesso", mi dissi, "è troppo presto".
"Nel momento in cui parleremo, lo perderò. E non posso farlo adesso".
Rimasi a fissare di stralcio lo schermo, immobile, finché non andò in stand-by.
- Come cazzo dovrei gestire due piani?! DIO! - presi a gridare verso il cruscotto, a caso, approfittando della totale solitudine. - CHE NON RIESCO A GESTIRE UN CAZZO DI NULLA! DIO! DIIIIIIOOOOOO! AHHHHH!
Credo, a posteriori, che quello fosse un esaurimento nervoso. Durò un po', non so quanto; so che presi a premere sul clacson, e che non smisi di gridare finché non mi fece male la gola. Poi, le nubi si diradarono e smise di piovere. Mi guardai nello specchietto sopra al sedile del guidatore. Avevo gli occhi rossi per il pianto, le guance solcate da occhiaie bluastre e i capelli, lunghi fino a metà collo, tutti in disordine. Girai la chiave nel cruscotto fino al click, aprii il finestrino e rispensi subito il motore. Poi accesi una sigaretta. Non me la sentivo, di tornare a casa.
Afferrai il cellulare. Ricordai che qualche settimana prima avevo scritto in chat a Evgenija Kutepova, attraverso il gruppo creato da Tina. "Ciao, Evgenija. Come stai? Ti ricordi che una volta mi hai parlato di una certa Becca? Sai dirmi dove viveva?" Era questo il messaggio che apriva la conversazione, risalente ormai a tre settimane prima.
E in quel modo avevo scoperto il nome della cittadina d'origine di quella ragazza. Aprii la mappa, per calcolare il percorso. Stava soltanto a mezz'ora di macchina dal punto in cui mi trovavo. Attesi qualche minuto, poi buttai la cicca consumata fuori dal finestrino. Quando riaccesi il motore, controllai di avere benzina sufficiente per arrivare fin là. Ne avevo. Forse anche per tornare a casa, più tardi.
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