6. Il nulla al di là

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Di ciò che succedeva intorno a me in quei giorni, e di ciò che io stessa facevo, so solo che si svolgeva al di fuori del mio campo visivo, come... da un'altra parte. Ricordo che ogni tanto compariva Tina: «Li chiami, i tuoi?» E io: «No». E poi: «Ma la denuncia?» E io: «Sì. Ora ci andiamo». Poi lei ricominciava a fare altre cose, la perdevo di vista.

E arrivava la sera. Mi stendevo sotto le coperte, spegnevo la luce e rimanevo immobile, nel buio più totale, in presenza soltanto dell'orrore.

Sono al sicuro, qui? Da dove potrei scappare?

Rimuginavo sulle vie di uscita più vicine, sugli infiniti ostacoli che avrebbero potuto impedirmi la fuga. Contavo gli oggetti che, nella stanza, avrebbero potuto convertirsi in arma: quel vaso? La gamba di quello sgabello? Pensavo al pericolo che correvano Tina e Salvo per il fatto di stare nella stessa casa, nello stesso posto in cui mi trovavo io. E non dormivo. Non dormivo mai. E al sonno arretrato di una notte si aggiungeva quello della notte dopo. Ancora e ancora.

Poi, gli effetti di quell'insonnia iniziarono a manifestarsi anche a livello somatico. Alla disperata stanchezza, alla frustrante consapevolezza di non essere in grado di porvi rimedio, si aggiunse un persistente dolore fisico, soprattutto allo sterno e alla gola. Il peso sul petto non accennava mai a diminuire. Ogni volta che spegnevo la luce compariva e, via via, si aggravava. Il respiro era compromesso, il cuore accelerava i suoi battiti e io continuavo a chiedermi: Sono al sicuro, qui? Da dove potrei scappare?

A volte vedevo me stessa come cadavere. Non dall'esterno, ma dall'interno. Per primo arrivava l'odore: una nauseante esalazione di morte mi penetrava nelle narici. Subito dopo, il resto: il mio corpo era ridotto a un nido di vermi, la mia carne era livida e fredda. Erano visioni vivide, disgustose... e c'era sempre lui, in piedi, che mi guardava. Appagato. Non sapevo cosa scatenasse quei flash e non avevo idea di come fermarli.

Mi capitò, la notte del 25 novembre, di addormentarmi. Sognai una presenza nella stanza: era una sagoma scura, si muoveva ai piedi del mio letto. Il suo respiro sottile era nascosto da qualche parte nel buio. Poi, la sua mano accarezzò il lenzuolo e le dita rigide, ossute mi percorsero il braccio, su su, fino alla spalla. Le mie palpebre erano come inchiodate, sigillate... Poi sentii una pressione alla giugulare. Sognai di spalancare gli occhi, di botto, e di vederlo lì. Di vedere i suoi bulbi. Vuoti. Come due buchi neri.

Mi svegliai che scalciavo, d'istinto mi portai le mani al collo. Avevo gridato nel sonno.

Poi, un cigolio.

«Chiara, tutto bene?»

Era la voce di Tina.

Il battito cardiaco prese a decelerare e feci un lungo respiro. Le mani rilasciarono la presa dal collo, era imperlato di sudore. 

«Solo... un incubo» sussurrai. Dalla fioca luce alle sue spalle, immaginai fosse l'alba. «Mi spiace di averti svegliata.»

«Ero già sveglia, in verità. Stavo lavorando ad alcune tavole.» Entrò a passi leggeri nella camera, lasciando la porta socchiusa. Si avvicinò al comodino e premette l'interruttore dell'abat-jour. Aveva la frangia un po' arruffata e una larga maglietta dei Sex Pistols infilata morbida nell'elastico di un paio di pantaloni a righe. Si sedette a bordo del letto. «Che incubo?»

«Oh.» Provai a eludere la domanda. «Che tavole?»

«Arte concettuale sul tema del capitalismo» mi rispose di getto. «Che incubo?» ripeté.

Mi stropicciai gli occhi, restai un po' in silenzio, con lo sguardo dritto di fronte a me, l'armadio appena rischiarato dalla luce che proveniva dal salotto. 

RecursionWhere stories live. Discover now