Era il 18 giugno, il terzo giovedì del mese, le undici del mattino. Scesi dalla macchina, dopo averla parcheggiata a una trentina di metri dal cancello di Villa del Rosario, in uno spiazzo sterrato contornato da ciuffi d'erba e arbusti incolti. Ero da sola, stavolta. E non avevo avvisato nessuno.
Un tiepido venticello mi accarezzò le ginocchia nude non appena posai la suola delle scarpe di tela sul terriccio compatto. Si sollevò un po' di polvere rossastra attorno a me. Era già molto caldo, per non essere nemmeno l'inizio dell'estate.
Attraversai il giardino all'ombra dei cedri; salii i gradini; entrai dentro la struttura, mi rivolsi al bancone della reception, rilasciai i miei dati. E poi mi volsi verso destra, in direzione della sala ricreativa. Mirafsaj era ancora là, oltre il corridoio, oltre l'arco, sulla stessa sedia di vimini; proprio come se non si fosse mai spostata.
L'unica differenza, era la posizione: non più di spalle, rivolta verso le vetrate; ma di sbieco, col viso rivolto a tre quarti verso la hall.
Il resto, era tutto uguale: stessa rasatura al millimetro, stessa camicia bianca con le maniche arrotolate oltre il gomito; identico sguardo perso nel vuoto, identico movimento cadenzato della testa, avanti e indietro, avanti e indietro. Potevo vedere le sue labbra muoversi, appena, in un sussurro. La cantilena era ricominciata.
Percorsi il corridoio in silenzio; e presi fiato, poco prima di entrare. Senza riflettere, tirai fuori il cellulare dalla tasca dei bermuda: ero ancora al di qua della linea d'ombra, a pochi passi dall'entrata. Lo puntai davanti a me, con la fotocamera accesa. Le scattai una foto. Non so perché lo feci.
Poi varcai la soglia. Avevo elucubrato su quel secondo incontro con lei per più di due settimane. Mi ero preparata tutto ciò che volevo dirle, come dirglielo, in quale ordine. Avevo studiato tutto, fin nei minimi dettagli. Avevo la testa piena di diagrammi di flusso, sovrapposti l'uno sull'altro. Credevo che nulla avrebbe potuto cogliermi di sorpresa. E invece, accadde. Accadde dopo ch'ebbi preso lo stesso sgabello della volta precedente e, portatolo davanti alla sua sedia in vimini, mi fui seduta.
- Mirafsaj, - le sussurrai. E lei interruppe la sua cantilena. Alzò gli occhi su di me. Mi trafisse, con uno sguardo di odio.
- Chi sei? - sibilò. E questo mi confuse.
- Sono Chiara, - risposi. - Ci siamo già parlate... un mese fa. Non ti ricordi?
Lei scosse la testa, in una smorfia di diffidenza. - Sei uguale a me. Com'è possibile?
Non ci potevo credere. Si era riavviato il nastro ed era ripartito dal principio.
Doveva esserci un qualche problema nella sua memoria a breve termine.
Dovetti ricalcolare tutti i miei piani.
- Non lo so, Mirafsaj, - le risposi, alla fine. - Non lo so perché siamo uguali. Credo sia soltanto una coincidenza. Sono un'amica di Jemina. È stata lei a chiedermi di venirti a cercare.
Lo sguardo di lei si addolcì di colpo. Tutta la sua diffidenza sparì. - Sul serio? Tu la conosci?
- Sì.
E Mirafsaj si chinò in avanti. Mi afferrò le mani e mi guardò dritta negli occhi. - Ti prego, dimmi come sta.
E io notai, al di là della scollatura della sua camicia, che aveva il busto fasciato, come se fosse ferita al petto. La prima cosa che pensai,fu che, in qualche scatto d'ira, si fosse fatta del male da sola e, in seguito, l'avessero medicata. Eppure, non sembrava la fasciatura di un medico. Sembrava più... Una semplice striscia di stoffa, ricavata da un lenzuolo, o forse da un vestito di cotone. Non ne avevo idea.
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Recursion
Fantasy«Non c'è evento che avvenga una volta soltanto, né cosa che esista senza esser già esistita.» 11 novembre 2011, ore 00:42 Questa la data e questa l'ora a partire dalle quali Chiara - studentessa di 21 anni nella città di Pisa - non subirà mai più al...
